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RSA. Il datore di lavoro non è responsabile della morte di una paziente. Come mai?

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La Redazione
Pubblicato il: 17/02/2023 vai ai commenti

Lettere alla Redazione

Gentile Redazione,

sempre più imprenditori si avventurano nella gestione di strutture assistenziali, in particolare per anziani. A volte lo fanno aumentano la loro ricettività nei confronti di utenti, congelando però le assunzioni, mantenendo quindi un organico insufficiente a far fronte a numeri sempre più elevati di ospiti. in particolare, la storia che vogliamo raccontarvi questa volta ha protagonista il rappresentante di una RSA, il quale nel primo grado di giudizio viene ritenuto responsabile di abbandono di incapace aggravato, in considerazione del fatto che una donna era deceduta dopo aver provato a scendere dal letto. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Civitavecchia, assolve invece l’imputato, ritenendo il fatto non sussistente. Allo stesso modo delibera anche la Corte di Cassazione.

Scopriamo come si sia arrivati ad una sentenza del genere.

Dopo il ribaltamento della sentenza di primo grado, ad opera del giudizio di secondo grado, i familiari della donna deceduta ricorrono in Cassazione sottolineando le seguenti motivazioni di ricorso:

  • La sentenza della Corte di Appello di Roma ha omesso di considerare che il “teste maresciallo De Paolis avesse evidenziato che la struttura non presentava i requisiti strutturali ed organizzativi come RSA, a prescindere dalla mancanza di autorizzazione”;
  • Anche un altro testimone aveva evidenziato la carenza del numero degli infermieri addetti al turno di notte, allorquando si era verificato il decesso della paziente;
  • La struttura era autorizzata come casa di riposo ed ospitare n.36 anziani, laddove ne ospitava, in concreto, oltre 70, di cui molti con patologie invalidanti, sicché proprio la Regione Lazio aveva imposto un AUMENTO NEL NUMERO DEL PERSONALE INFERMIERISTICO IN FUNZIONE DEL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE AD OPERARE COME RSA;
  • Quando si è verificato l’evento sentinella, i pazienti, suddivisi su tre piani, erano assistiti solo da un infermiere e da un operatore sociosanitario, che coprivano il turno di notte, in maniera evidentemente insufficiente.

Apparentemente le suddette deduzioni sembrerebbero sufficienti a ritenere giusta la formulazione del reato di abbandono di incapaci. Tuttavia agli occhi dei giudici appare del tutto incongrua la formulazione del capo di imputazione, visto che il reato contestato prevede come pena una “semplice contravvenzione” in tema di rilascio di un’autorizzazione amministrativa all’esercizio di una specifica attività sanitaria, prevista dal Testo unico delle leggi sanitarie, ma non fonda certamente come il mancato rilascio di detta autorizzazione a fini amministrativi possa porsi in relazione causale con le lesioni riportate dalla paziente, posto che la lesione personale deve derivare dalla condotta incriminata, con la quale, quindi, si colloca in rapporto di causalità diretta.

Il reato di cui all’art. 591 del codice penale (abbandono di persone minori o incapaci) è a forma libera (reati commessi in qualunque modo. Esempio: l’omicidio in qualunque modo viene commesso, viene punito), ma – ai fini della sua configurazione – deve comunque individuarsi una posizione di garanzia che possa fondare la responsabilità penale, in quanto il delitto in esame è considerato dalla dottrina un reato proprio, che può esser commesso solo da parte di colui che riveste una posizione di garanzia nei confronti del soggetto passivo, sia esso un minore o un incapace.

La condotta, infatti, consiste nell’abbandono della vittima, cioè nella volontaria sottrazione, anche solo parziale o temporanea, dai propri obblighi di custodia o di cura, nella consapevolezza della esposizione a pericolo della vita o dell’incolumità individuale del soggetto incapace di attendervi da solo.

Di fatto l’orientamento della Corte è nel senso che la fattispecie in esame tuteli non il rispetto dell’obbligo legale di assistenza, quanto il valore etico-sociale della sicurezza della persona fisica contro determinate situazioni di pericolo, che non deve necessariamente realizzarsi.

Peraltro, anche l’elemento soggettivo (dolo – colpa – preterintenzione) del reato, in questo caso è costituito dal dolo generico, consistente proprio nella coscienza di abbandonare a sé stesso il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere alle proprie esigenze, in una situazione di pericolo per la sua integrità, di cui si abbia l’esatta percezione.

Volendo sintetizzare quanto finora detto, possiamo affermare che la sentenza oggi commentata e di conseguenza il reato contestato, può ricondursi esclusivamente ad una sanzione di tipo economico ovvero una contravvenzione. Infatti, sotto l’aspetto formale la struttura non possedeva ancora il requisito dell’autorizzazione, visto che il responsabile aveva ricevuto proprio una contravvenzione, mentre sotto il profilo sostanziale possedeva già i requisiti per l’esercizio della RSA, per cui la mancanza di autorizzazione amministrativa non può in nessun modo porsi in relazione causale con l’abbandono dell’incapace e con le lesioni da questa subite.

In sostanza la sentenza di secondo grado, aveva concluso che:

  • la cura e la custodia della paziente fossero state adeguatamente assicurate, non potendosi certo pretendere una sorveglianza continua ed individuale per ciascun paziente;
  • un diverso tipo di sorveglianza non avrebbe potuto essere garantita neanche da un numero inferiore di ospiti nella struttura o dalla presenza di un maggior numero di infermieri in turno;
  • la presenza delle sponde ai lati del letto ai fini della prevenzione del rischio di cadute accidentali e di tentativi di superamento, anche tenuto conto delle condizioni della paziente, che, all’epoca dei fatti, presentava un peggioramento nelle sue capacità di autonoma deambulazione.

Infine un’ultima osservazione della Corte riguarda la contenzione meccanica: l’adozione delle misure organizzative e strutturali deve essere compatibile con le finalità meramente assistenziali della struttura, non potendo certo applicare misure più penetranti di contenzione meccanica, peraltro non previste e non consentite dalle normative di settore, né nella cura dei pazienti anziani né nella cura di alcun paziente, ivi inclusi quelli psichiatrici.

In conclusione, possiamo quindi affermare che il datore di lavoro non necessariamente risponde di quanto accade nella propria struttura, visto che non sempre si può parlare di posizione di garanzia, peculiarità quest’ultima  appannaggio quasi esclusivamente degli operatori sanitari.

Muzio Stornelli, Dirigente dei servizi Infermieristici presso Casa di Cura Privata Di Lorenzo Spa