OCSE: retribuzioni ferme e carichi insostenibili. Così l’Italia perde infermieri
Il rapporto OCSE “Health at a Glance 2025” svela un’emergenza strutturale: l’Italia arranca tra retribuzioni stagnanti e carenze croniche, ma il problema riguarda l’intero mondo sviluppato. E il futuro non promette miglioramenti senza una svolta politica concreta.
Nel mondo post-Covid, la salute dei sistemi sanitari si misura sempre più dal battito della loro forza lavoro. Medici, infermieri, operatori ospedalieri: professionisti che tengono in piedi ogni giorno il sistema, ma che – secondo l’ultimo rapporto OCSE Health at a Glance 2025 – sono ormai al centro di una crisi che supera i confini nazionali. L’Italia ne è un esempio lampante, ma non un’eccezione. Stipendi stagnanti, carichi di lavoro in aumento, disuguaglianze territoriali e migrazioni in uscita sono il volto di una crisi strutturale che investe l’intero Occidente avanzato.
Medici italiani: retribuzioni nella media, ma il gap con i leader è ampio
I medici specialisti in Italia guadagnano in media 142 mila dollari (valutati in parità di potere d’acquisto), poco sopra la media OCSE (133 mila), ma lontanissimi dai 256 mila dollari dell’Irlanda, dai 228 mila dei Paesi Bassi o dai 207 mila della Germania. Risultato: l’Italia si colloca in una fascia intermedia che la espone a una concorrenza salariale insostenibile.
E mentre i numeri dei medici crescono – complice l’aumento degli accessi a Medicina e il prolungamento della vita lavorativa – la disponibilità effettiva di cure diminuisce. Le ore lavorate calano, la forza lavoro invecchia e le aree rurali restano cronicamente scoperte. Gli strumenti messi in campo (incentivi locali, accessi agevolati alle specializzazioni, vincoli territoriali) funzionano solo a macchia di leopardo.
Infermieri: tra i meno pagati dell’Occidente, e con un futuro incerto
Ancora più allarmante è il quadro per gli infermieri. Con uno stipendio medio di 48 mila dollari PPP, l’Italia si trova ben sotto la media OCSE di 61 mila, e lontana anni luce dai 123 mila del Lussemburgo o dai 97 mila degli Stati Uniti. È uno dei livelli più bassi dell’Europa occidentale, a ridosso dei Paesi dell’Est.
Il rapporto OCSE segnala che gli infermieri rappresentano tra il 20 e il 25% dell’intera forza lavoro sanitaria, ma la loro attrattività come professione è in declino. Sempre meno giovani intendono intraprendere questo percorso: un dato che, se ignorato, avrà effetti devastanti sulla sostenibilità futura dei servizi sanitari.
Una crisi che non è solo italiana: i numeri raccontano un problema globale
Nel 2023, il 10,9% dei lavoratori nei Paesi OCSE era impiegato nella sanità o nell’assistenza sociale. Dieci anni prima era uno su dieci. Una crescita trainata non da scelte politiche, ma da necessità demografiche e sociali: invecchiamento, aumento delle cronicità, aspettative dei cittadini. Eppure, la crescita numerica del personale non risolve le criticità.
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Le aree metropolitane attraggono la maggioranza dei medici e infermieri, lasciando vaste zone periferiche e rurali prive di assistenza.
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La mobilità geografica resta limitata da condizioni di lavoro sfavorevoli e dalla mancanza di infrastrutture.
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L’aumento del personale non clinico negli ospedali – fino al 46% in Paesi come gli Stati Uniti – alimenta il dibattito sull’uso efficiente delle risorse.
Dipendenza dall’estero: tra opportunità e vulnerabilità
Un altro nodo evidenziato dal rapporto è la crescente dipendenza dai medici e infermieri formati all’estero. Nel 2023, oltre 600.000 medici stranieri lavoravano nei Paesi OCSE, +50% rispetto al 2010. Regno Unito, Germania e Stati Uniti da soli ne assorbono il 60%. In Israele i medici stranieri sono il 59% del totale. In Italia? Meno dell’1%. Un dato che segnala non solo scarsa attrattività, ma anche rigidità del sistema di accesso.
Sul fronte infermieristico, la migrazione è ancora contenuta, ma in rapida crescita. I Paesi ad alto reddito reclutano personale dai Paesi a medio reddito, spesso impoverendo i sistemi già fragili di partenza. Una tendenza che rischia di aggravare la disuguaglianza sanitaria globale.
Il rischio di un collasso sistemico
La conclusione dell’OCSE è netta: non siamo davanti a una crisi congiunturale, ma a una fragilità sistemica. I numeri crescono, ma la distribuzione resta squilibrata. Le carenze di competenze aumentano. Il turnover e la fuga dei professionisti minano la stabilità. E le nuove generazioni non sono pronte a rimpiazzare chi esce dal sistema.
L’Italia tra declino e occasione mancata
Nel panorama globale tracciato dal rapporto, l’Italia incarna una doppia fragilità. Da un lato, paga stipendi non competitivi e fatica a trattenere i propri professionisti. Dall’altro, non riesce ad attrarre quelli formati all’estero. Il risultato è un Servizio Sanitario Nazionale che regge ancora grazie alla professionalità di medici e infermieri, ma che rischia di crollare sotto il peso delle sue contraddizioni.
Senza investimenti mirati su salari, formazione, valorizzazione delle competenze e riequilibrio territoriale, il futuro della sanità pubblica italiana è segnato. E con esso, quello del diritto alla salute per milioni di cittadini.
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