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ADI, la grande illusione: tanti numeri, poca cura. E il peso ricade sugli infermieri

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 08/04/2025

Professione e lavoroStudi e analisi

 

Nel 2026 l’Italia dovrebbe garantire Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) ad almeno il 10% degli over 65. Un obiettivo chiave del PNRR per trasformare la “casa nel primo luogo di cura”. Ma la realtà raccontata dai dati – e vissuta ogni giorno da chi è sul campo – è un’altra: si moltiplicano i pazienti “assistiti”, ma cala la qualità dell’assistenza. Il sistema rincorre i numeri, ma dimentica le persone.

A lanciare l’allarme è Tonino Aceti, presidente di Salutequità: «Stiamo facendo bella figura con l’Europa, ma una pessima figura con i pazienti. Il rischio è sprecare l’occasione storica del PNRR». Nello studio L'Assistenza domiciliare integrata, sia di qualità A a firma di Mario Fiumene, già coordinatore delle cure domiciliari in Sardegna, conferma il paradosso: più accessi, meno assistenza reale.

Una fotografia impietosa

Nel 2023 in 14 Regioni oltre il 50% delle prestazioni ADI si è ridotto a un solo accesso, una visita spot, una formalità. In Lombardia e Calabria, metà degli interventi domiciliari si esauriscono in un’unica giornata di cura. Non c’è presa in carico, non c’è continuità. Solo contabilità.

Intanto, le ore di assistenza per paziente over 65 sono in calo: si è passati da 18 ore nel 2018 a 15,8 nel 2023. Con disparità assurde: la Calabria supera le 56 ore medie, la Lombardia si ferma a 10,9.

Infermieri lasciati soli

Ma chi tiene in piedi questo sistema? Gli infermieri. Il 67% dell’ADI attuale si regge su di loro. Eppure, i numeri non tornano. Gli infermieri di famiglia e comunità (IFeC) nel 2022 erano solo 1.464 su un fabbisogno stimato in 19.314. Una carenza strutturale che pesa, eccome.

Secondo lo studio AIDOMUS-IT, meno di un’ASL su due ha un assistente sociale, appena il 53% ha assunto almeno un OSS. Nel Sud, va ancora peggio. E i medici palliativisti? Solo il 22% delle borse di specializzazione è stato assegnato. Una bomba a orologeria sotto il sistema.

Accreditamenti al palo, tecnologia ferma

A quattro anni dall’intesa Stato-Regioni sull’accreditamento dei servizi ADI, solo tre regioni – Lazio, Sicilia e Campania – hanno concluso l’iter. Tutto il resto è fermo tra burocrazia e mancanza di controlli sul campo. La telemedicina, obbligatoria per legge, è quasi del tutto assente.

Eppure – e questo Fiumene lo sottolinea con forza – l’umanizzazione delle cure parte proprio da qui: dalla capacità di essere presenti, continui, attenti. Non basta portare una prestazione a domicilio, serve costruire una relazione, un piano, un percorso. Serve assistenza vera, non solo registrata.

Il punto

Chi lavora nell’ADI lo sa: la vera emergenza non sono i numeri, ma le persone. Senza più infermieri, senza risorse strutturali, senza presa in carico reale, il rischio è che l’ADI diventi una scorciatoia di facciata. E il carico, come sempre, lo reggono loro: gli infermieri.

«Serve una regia nazionale forte – dice Fiumene – e un Fondo sanitario che vada oltre le risorse temporanee del PNRR. Altrimenti il sistema crolla. E con lui, tutto ciò che abbiamo chiamato “umanizzazione delle cure”».