Iscriviti alla newsletter

Corte di giustizia Europea: pausa non è riposo se si è a disposizione del datore di lavoro

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 14/09/2021 vai ai commenti

La SentenzaLeggi e sentenzeProfessione e lavoro

La pausa concessa al dipendente, che non gli permette di gestire il proprio tempo perché tenuto a effettuare un eventuale intervento rapido, rientra nell’orario di lavoro e non può essere qualificata come periodo di riposo.

E’ quanto stabilito dalla Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 9 settembre, riguardante l’orario di lavoro inerente la Direttiva 2003/88/CE.

I fatti

La vicenda riguarda un vigile del fuoco, soggetto ad un regime, a squadre alternanti, articolato in un turno diurno, nella fascia oraria compresa tra le ore 6:45 e le ore 19:00, e in un turno notturno, che copriva la fascia oraria compresa tra le ore 18:45 e le ore 7:00. I suoi orari di lavoro giornaliero includevano due pause per i pasti e il riposo della durata di 30 minuti ciascuna.

Tra le ore 6:30 e le ore 13:30, il vigile del fuoco, poteva recarsi alla mensa aziendale, situata a 200 metri dalla sua postazione di lavoro, a condizione che indossasse un trasmettitore che lo avrebbe avvisato, se necessario, che il veicolo d’intervento sarebbe venuto a prenderlo entro due minuti davanti alla mensa aziendale. Inoltre, l’area di deposito in cui il vigile del fuoco lavorava era dotata di uno spazio che permetteva di preparare pasti, in particolare, al di fuori degli orari di apertura della mensa aziendale.

Le pause erano computate nell’orario di lavoro, soltanto se interrotte da una partenza per un intervento. Di conseguenza, le pause ininterrotte non erano retribuite.

Il vigile del fuoco, ha contestato questo metodo di calcolo della sua retribuzione.

Il vigile, quindi, era tenuto a essere reperibile anche durante le pause e pronto a salire sul veicolo d’intervento entro due minuti.

Considerando che le pause, pur se ininterrotte, costituissero tempo di lavoro, egli ha rivendicato la somma di CZK 95 335 maggiorata degli interessi di ritardo, a titolo della retribuzione che a suo parere era dovuta tenuto conto delle due pause giornaliere non considerate nel calcolo della retribuzione per il periodo controverso nel procedimento principale.

 

Per la Corte di Giustizia Europea, il periodo di guardia, in cui il lavoratore è a disposizione del datore, non è riposo, come confermato anche dalla circostanza che il dipendente doveva essere presente sul luogo di lavoro. «Tutto questo periodo - chiariscono i giudici – deve essere qualificato come orario di lavoro» in base alla direttiva.

La direttiva 2003/88 definisce la nozione «orario di lavoro» come «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni». Il secondo capo della direttiva 2003/88 è dedicato, tra l’altro, ai «periodi minimi di riposo». Oltre al riposo giornaliero e settimanale, tale capo riguarda, all’articolo 4 di tale direttiva, la «pausa» di cui ogni lavoratore deve beneficiare nel caso in cui l’orario di lavoro giornaliero superi le sei ore e le cui modalità, in particolare la durata e le condizioni di concessione, sono fissate da contratti collettivi, accordi conclusi tra le parti sociali o, in loro assenza, dalla legislazione nazionale.

La Corte di Giustizia europea precisa che il periodo di riposo, deve essere considerato periodo di lavoro, anche se il dipendente non è obbligato a rimanere sul luogo di lavoro perché, in tutti i casi in cui i vincoli imposti «siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà» di gestire liberamente il tempo, si è in presenza di un tempo che rientra nell’orario di lavoro.

Inoltre, la circostanza che le interruzioni dei periodi di pausa siano occasionali e imprevedibili non incide sulla qualificazione di questi periodi se il termine per riprendere l’attività professionale è tale da limitare in modo significativo e oggettivo la gestione del proprio tempo. Così va interpretata la direttiva e a questo devono attenersi i giudici nazionali disapplicando il diritto interno contrastante anche nei casi in cui la Cassazione dia altre indicazioni ai giudici di merito.

 

Quotidiano del Lavoro