Iscriviti alla newsletter

Angeli della notte. Le nostre rivendicazioni in un vecchio romanzo inglese

Andrea Tirottodi
Andrea Tirotto
Pubblicato il: 02/11/2022 vai ai commenti

EsteroGlobal NursePunto di Vista

Il mio amico Giancarlo Tusceri (giornalista, scrittore, poeta, sceneggiatore, commediografo e biografo della divina Lia Origoni) mi ha fatto dono di un libro che ha letto con entusiasmo, di cui è rimasto molto impressionato e che avendo come protagonista un’infermiera era certo mi sarebbe interessato e piaciuto.

La cosa mi ha fatto molto piacere ovviamente e mi sono buttato a capofitto nella lettura.

L’ho divorato in un pomeriggio in un combattimento di sensazioni in cui l’attesa la faceva da padrona. L’attesa di cosa? Di qualcosa di eclatante che puntualmente non è arrivato, mentre prepotente si è fatta strada la consapevolezza di aver riposto chissà quali aspettative nella storia che si sviluppava.

Alla fine della lettura, prima di qualsiasi commento e prima di di dare al mio amico qualsiasi opinione, gli ho chiesto cosa lo avesse colpito così tanto. La risposta è stata semplicemente disarmante: “l’umanità della protagonista e la sua lotta per migliorare la qualità della vita delle infermiere. E ciò, nonostante situazioni che si accaniscono contro di lei....Fino al disastro dell’autobus in cui lei è la vera eroina”.

Mi sono emozionato, lo confesso e mi sono reso conto che da infermiere avevo una lettura viziata da una aspettativa ingiustificata, mentre perdevo l’essenza stessa del romanzo che aveva proprio il compito di esaltare il valore umano dell’infermiera protagonista e della sua lotta, colto pienamente dal mio amico, lontano egli anni luce dalla mia professione.

Mi sono concentrato sugli stereotipi e ho perso il valore essenziale della storia salvo poi rendermi conto di alcuni aspetti fondamentali che me l’hanno fatta vedere sotto una luce completamente diversa.

Il primo è che pubblicazione del romanzo è del 1939 in Inghilterra. A quell’epoca il corpo infermieristico inglese aveva già una chiara identità e una scala gerarchica definita. L’ambientazione non poteva che essere riportata in quel presente con tutto il carico di giudizi e pregiudizi che la società inglese aveva nei confronti delle infermiere.

Il secondo è una diretta conseguenza che mi ha fatto comprendere che se fossi stato un lettore del 1939, avrei certamente colto il valore del messaggio che l’autore voleva comunicare.

Terzo, Cronin, premio Nobel, sposa in quel tempo la causa delle infermiere inglesi che reclamano condizioni di lavoro e salari decenti, qualcosa che oggi non mi pare all’ordine del giorno di nessun premio Nobel.

Nel libro ci sono infatti alcuni passaggi che mi hanno riportato all’attualità ancora retrograda della condizione infermieristica italiana per cui tanto lavoro il sindacato infermieristico sta facendo, esattamente come Anna - la protagonista - con l’Unione delle Infermiere.

Sembra seduta accanto a noi Anna che presa dalla nuova esperienza dell’assistenza domiciliare, si accorge di come “mai prima di allora avesse compreso le possibilità e l’utilità del lavoro dell’infermiera (...)entrava in case in cui la malattia aveva posato la sua mano paralizzante, ricche e povere, in cui la gente scrutava il suo volto cercandovi un vago segno di speranza”.

Pur sapendo che l’Inghilterra non è l’Italia e che una cosa del genere non accadrà mai, una frase in particolare ha ringalluzzito il mio orgoglio di infermiere, quando Anna “comprese che passaporto fosse il suo nome, il magico nome d’infermiera. Vide folle turbolente aprirsi per lasciarla passare, si rese conto di come la sola vista della sua uniforme fosse, nei quartieri peggiori della città, protezione più efficace di una intera squadra di poliziotti”.

Un prestigio sociale sottolineato dal ricco di turno, della cui moglie malata la protagonista diventa assistente, che la invita alla sua tavola nonostante la sua riluttanza con un perentorio “che cosa c’è che non va? Lei non è mica una domestica, no? Lei vale quanto noi”.

Nonostante il prestigio sociale almeno apparente, dialogando con la segretaria dell’Unione Infermiere, scopre come le condizioni di vita delle infermiere, dimenticate da tutti e in miseria quando troppo vecchie e spinte in qualche caso al suicidio, dipendano dal non aver mai avuto un “trattamento onesto” cosa che la convince del fatto che “non siamo abbastanza organizzate, dovremo avere un sindacato molto forte (…) dovremmo avere l’appoggio dell’opinione pubblica” perché “se il paese si scuotesse e conoscesse i torti che si fanno alle infermiere, potremmo forse ottenere soddisfazione alle nostre rivendicazioni”.

Rivendicazioni che partono dall’amara osservazione di come sia “una specie di superstizione, di feticismo, la tradizione di Florence Nightingale che è stata per noi una palla al piede per tanti anni. Questo concetto di dama amabile che sprimaccia i guanciali e lavora per puro amore dell’ideale!

Non nascondo di aver fatto una hola alla lettura del passo mentre continuavo a ripetermi come il tutto fosse frutto di considerazioni successive alla morte della ben nota e quindi lontane poco meno di un secolo dal mio tempo. Un tempo tremendamente simile però, considerato il passaggio in cui la protagonista è decorata con una medaglia al valore per la sua opera durante una epidemia, sfruttata per rendere di dominio pubblico la condizione delle infermiere grazie ad alcuni giornalisti che non mancheranno di darne risalto e ad alcuni politici che se ne faranno carico.

Alla fine, un giudizio affrettato si è trasformato in una rivalutazione dell’opera per la sua attualità dei passaggi rivendicativi, me l’ha fatta apprezzare e ve ne consiglio la lettura.

Ho ringraziato il mio amico

 

Andrea Tirotto