Stop al lavaggio domestico delle divise: è obbligo del datore di lavoro
Pubblicata il 27 marzo 2025, la sentenza n. 8152/2025 della Corte di Cassazione segna un punto fermo nella tutela della sicurezza sul lavoro. La Suprema Corte ha accolto il ricorso di un gruppo di dipendenti che chiedevano il rimborso delle spese sostenute per il lavaggio delle divise, considerate a tutti gli effetti dispositivi di protezione individuale.
La controversia nasce dal rigetto della domanda da parte della Corte d’appello di Bari, che aveva giudicato insufficienti le allegazioni dei lavoratori. Secondo i giudici di secondo grado non era stato descritto con precisione il danno patrimoniale e mancava qualsiasi riferimento al danno non patrimoniale. La richiesta di calcolare il pregiudizio sulla base di un’ora di lavoro straordinario settimanale era stata ritenuta priva di fondamento. Inoltre non era stata ammessa la prova testimoniale sulle spese sostenute per il lavaggio.
I lavoratori hanno impugnato la decisione davanti alla Cassazione denunciando un errore procedurale, l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione delle norme sull’onere della prova.
La Suprema Corte, con relazione del consigliere Antonella Pagetta, ha ribaltato il verdetto di secondo grado. Il cuore della decisione è il principio cardine riaffermato con forza:
quando un indumento è fornito dal datore di lavoro per proteggere la salute del lavoratore, esso rientra nei dispositivi di protezione individuale e il datore ha l’obbligo non solo di fornirlo, ma anche di garantirne la manutenzione, incluso il lavaggio. Le spese sostenute dal lavoratore per supplire all’inadempimento del datore devono essere rimborsate.
Un principio che la Cassazione aveva già espresso più volte, e che la sentenza 8152/2025 ribadisce in modo netto: gli indumenti di lavoro non sono un semplice abbigliamento professionale, ma una barriera protettiva. Per questo la manutenzione igienica non può ricadere sul dipendente.
Secondo i giudici di legittimità la Corte d’appello di Bari ha commesso due errori. Primo, ha ignorato un fatto decisivo e incontestato: i lavoratori erano costretti a lavare a proprie spese gli indumenti necessari per operare in condizioni di sicurezza. Secondo, ha negato la prova testimoniale giudicandola inutilizzabile ancora prima che venisse espletata. Una scelta definita apodittica e contraria ai criteri con cui va valutata l’ammissibilità della prova.
La Cassazione chiarisce che, una volta accertato l’inadempimento del datore di lavoro, la misura del danno deve essere determinata esaminando tutte le prove disponibili. Non può essere bloccata dal fatto che il parametro proposto dai ricorrenti sia discutibile. La prova orale, se ammessa, avrebbe potuto chiarire l’entità degli esborsi sostenuti.
La sentenza d’appello è stata quindi annullata e il caso rinviato alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione, che dovrà rideterminare il danno e liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.
Con questa decisione la Cassazione rafforza un orientamento ormai stabile: la sicurezza sul lavoro non si esaurisce nella consegna dei dispositivi, ma include la loro manutenzione efficiente. Un obbligo che non può essere scaricato sui lavoratori, soprattutto in settori in cui i rischi igienico sanitari fanno parte della quotidianità.
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