Normalità contro realtà : il potere seduttivo della statistica
La normalità non esiste: è solo un concetto statistico che non ha nulla a che vedere con la realtà.
Il concetto di “normalità” è di recente introduzione, nel nostro lessico, poiché è stato adottato solo verso la fine dell’Ottocento; fino ad allora, per “normalità” si intendeva, in geometria, la perpendicolare generata da una squadra (“norma”, in latino).
Il mondo scientifico ha cominciato a sentire il bisogno di applicare tale regola a cominciare dall’astronomia: poiché la misurazione della distanza da una stella dava ogni volta un risultato diverso, si è deciso di considerare il valore medio di tutte le distanze misurate. Questa regola statistica fu poi applicata anche all’ambito sociale e a quello medico.
A rivoluzionare il mondo e il modo di vedere le cose fu l’astronomo e statistico Adolphe Quetelet (1796-1874), il primo a far sì che la statistica divenisse una scienza morale (come i molteplici studi sull’uomo medio).
Famosa la definizione della misura del petto degli uomini scozzesi, ottenuta attraverso la misurazione della circonferenza toracica di 5.738 soldati scozzesi.
A lui si ispirarono in molti, come Wilhelm Wundt (1832-1920), il padre della psicologia sperimentale, il primo a pensare di poter misurare i fenomeni mentali, o come Karl Marx (1818-1883), che vide nell’ideale di uomo medio l’esistenza del determinismo o, ancora, la nostra Florence Nightingale (1820-1910), che introdusse la statistica nel campo dell’infermieristica.
Successivamente, con l’industrializzazione e la standardizzazione dei processi, si sentì sempre più forte il bisogno di definire le caratteristiche delle persone più adatte a competere, a produrre, a sopravvivere, anche secondo l’imperante “darwinismo sociale” molto in voga nella prima metà del secolo scorso.
Da qui alla definizione di “persona normale” il passo fu breve.
Sulla base di questi concetti, la conseguenza logica fu che i più deboli, le minoranze, i diversi, erano destinati a soccombere.
Nel 1943, il ginecologo e ricercatore Robert Latou Dickinson (1861-1950) (sostenitore dell’eugenetica, del controllo delle nascite e della visione patologica dell’omosessualità), con l’aiuto dello scultore Abram Belskie (1907-1988), realizzò due statue che chiamò Norma e Normman. Le due sculture raffiguravano la donna e l’uomo ideale. Le sculture furono realizzate utilizzando le misure di 15.000 tra maschi e femmine, ovviamente tutti bianchi, tra i 21 e i 25 anni, insomma non esattamente un campione rappresentativo della reale popolazione degli Stati Uniti. Queste statue ebbero un successo incredibile e, quando nel 1945 il Museo della Salute di Cleveland le comprò, venne addirittura istituito un concorso per trovare la “Norma, donna tipica” dell’Ohio.
Non dimentichiamo nemmeno che nel DSM (il manuale diagnostico-statistico dell’Associazione Psichiatrica Americana), la cui prima edizione fu pubblicata nel 1952, i comportamenti sessuali definiti “anormali” e peccaminosi dalle varie religioni divennero “patologie da curare”.
Da qui ai pregiudizi di cui la nostra società è impregnata, il passo è breve.
E in quest’epoca di analfabetismo di ritorno, di abbassamento del QI e di rintontimento generale dovuto all’uso massiccio di social, smartphone e intelligenza artificiale ecco che trovano spazio, nella testa dell’uomo qualunque, le nuove teorie eugenetiche che pensavamo di esserci lasciati alle spalle con la sconfitta del nazifascismo.
Quando Vannacci, tanto per fare un esempio, considera normali gli eterosessuali e anormali gli omosessuali, un brivido corre lungo la schiena. La sua furbizia consiste nell’usare la statistica a suo favore e quindi definisce normale tutto ciò che rientra nella norma, ovvero nella media statistica.
Se avesse ragione allora sono anormali tutti i mancini, sono anormali tutti gli albini, sono anormali tutte le persone affette da malattie rare, sono anormali anche i tifosi della Ternana, dato che la maggioranza degli italiani tifa Juve, Inter, Roma o Napoli.
Da infermiere (ed è un invito che rivolgo a tutte le colleghe e i colleghi) mi riprometto, ogni giorno da quando lavoro, di non lasciarmi sedurre dalla statistica e dalla “normalità”, ma di trattare ogni individuo come essere unico e irripetibile, degno di rispetto, portatore di immense ricchezze le quali, se mi lasciassi guidare dal preconcetto, non mi verrebbero mai donate.
Quello che viene descritto come un “mondo al contrario” dal generale e dai suoi seguaci è, invece, un mondo equo, paritario e giusto. Dove anche chi ha i capelli verdi, tre gambe e gli occhi al posto delle orecchie si sente normale.