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Infermiera licenziata per non aver segnalato collega dormiente in turno. Cassazione ordina reintegro

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 21/11/2024 vai ai commenti

La SentenzaLeggi e sentenzeProfessione e lavoro

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22614 della sezione lavoro, ha ribadito quanto deciso dalla Corte d’Appello dell’Aquila, annullando il licenziamento di un’infermiera di una Casa di Cura privata e ordinandone la reintegrazione. La Suprema Corte ha confermato che l’espulsione della lavoratrice aveva natura ritorsiva, in violazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge n. 92 del 2012.

Il caso: accuse di omissione e connivenza

L’infermiera era stata licenziata con l’accusa di condotta negligente. Secondo il datore di lavoro, durante un turno notturno, non avrebbe segnalato che un collega era andato a dormire in una stanza adibita a deposito, lasciando a lei la gestione completa del reparto. Tale comportamento, ritenuto omissivo e connivente, avrebbe compromesso la regolare assistenza ai pazienti. La società aveva inoltre evidenziato una presunta recidiva, richiamando due precedenti procedimenti disciplinari.

Tuttavia, la Corte d’Appello aveva escluso qualsiasi violazione del dovere di diligenza. La lavoratrice, infatti, aveva svolto regolarmente le proprie mansioni, assumendo anche quelle del collega assente, senza causare disservizi. Inoltre, l’infermiera aveva prontamente informato la caposala dell’accaduto, dimostrando di aver agito con trasparenza.

La discriminazione sindacale: il vero motivo del licenziamento

Secondo i giudici, il licenziamento non era motivato da ragioni disciplinari, ma da un intento ritorsivo. L’infermiera era una sindacalista iscritta al Nursind, organizzazione che aveva ottenuto importanti risultati contro la stessa Casa di Cura in una vertenza per il riconoscimento di adeguamenti retributivi previsti dal contratto collettivo. Dopo tale vittoria, tutti i lavoratori che avevano sostenuto la vertenza erano stati licenziati, mentre quelli che si erano ritirati erano rimasti in servizio.

La Cassazione ha confermato che questo elemento, unito alla mancanza di prove sufficienti a giustificare il licenziamento, evidenzia una condotta discriminatoria da parte del datore di lavoro. Inoltre, i richiami disciplinari utilizzati nella lettera di contestazione risultavano datati e irrilevanti, privi di fondamento per supportare l’accusa di recidiva.

La rilevanza della pronuncia: protezione contro licenziamenti illegittimi

La sentenza sottolinea che la ritorsività del licenziamento emerge dall’assenza di motivazioni legittime e dalla presenza di elementi, anche indiziari, che rivelano l’intento discriminatorio. In particolare, la Cassazione ha richiamato un principio già espresso nella sentenza n. 1 del 2020, ribadendo che la discriminazione sindacale può essere dimostrata anche attraverso dati statistici e altre prove indirette.

La vicenda rappresenta un importante caso di tutela dei diritti dei lavoratori e della libertà sindacale. La decisione riafferma che il licenziamento può essere dichiarato nullo quando viene utilizzato come strumento di rappresaglia contro l’esercizio di diritti collettivi o sindacali, garantendo al dipendente non solo la reintegrazione, ma anche il riconoscimento della dignità professionale.

La pronuncia della Cassazione conferma l’importanza di una giustizia del lavoro attenta alle dinamiche discriminatorie, specialmente in contesti dove il potere datoriale viene esercitato in modo abusivo. Il caso dell’infermiera evidenzia come il sistema giuridico italiano possa rappresentare un argine contro comportamenti illeciti che minano la libertà e la sicurezza dei lavoratori, rafforzando il principio per cui nessuna azione sindacale legittima può essere punita attraverso licenziamenti arbitrari.