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Tanto lavoro, poca paga: perché gli infermieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 15/05/2025

Professione e lavoroStudi e analisi

 

Il Servizio Sanitario Nazionale si regge anche – e soprattutto – sulle spalle degli infermieri. Ma chi regge gli infermieri? È la domanda che sorge leggendo il primo Rapporto sulle Professioni Infermieristiche realizzato dalla FNOPI in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Una fotografia nitida, documentata e per certi versi impietosa di una categoria centrale nel sistema salute, ma ancora penalizzata sotto il profilo economico, professionale e organizzativo.

Una retribuzione che non regge il confronto europeo

Il dato più immediato e allarmante è quello retributivo: lo stipendio medio annuo lordo di un infermiere in Italia si attesta sui 32.400 euro, contro i quasi 39.800 euro della media OCSE. Non solo: la retribuzione non cresce in modo omogeneo nel territorio nazionale. Il Trentino-Alto Adige guida la classifica con 37.204 euro, mentre il Molise chiude il gruppo con 26.186 euro. Il divario regionale supera i 10.000 euro.

Secondo gli autori del rapporto, questa forbice non si spiega con la produttività individuale, ma con fattori sistemici: la presenza più o meno estesa di posizioni dirigenziali, le scelte organizzative delle aziende sanitarie, la presenza del settore privato e, non da ultimo, le storiche disuguaglianze Nord-Sud.

Carriere ferme e vertici lontani

Il problema non è solo il "quanto" ma anche il "come". In Italia ci sono in media 1,66 dirigenti infermieristici ogni 1.000 infermieri. In alcune regioni si arriva a oltre 4, in altre – come la Campania – il numero crolla a 0,20. È il segnale di una professione che, al Sud, ha meno spazio per crescere, essere rappresentata e incidere nei processi decisionali.

Anche a livello nazionale, la presenza di infermieri in posizioni apicali è marginale. Su 346 posizioni dirigenziali analizzate nelle aziende ospedaliere, solo 10 risultano occupate da infermieri. Appena il 3%. E anche il cosiddetto “soffitto di cristallo” resta saldo: a fronte di un corpo professionale composto per oltre il 76% da donne, le posizioni di vertice restano appannaggio maschile, con un indice di disparità medio pari a 1,4.

La soddisfazione cala, l’intenzione di andarsene cresce

Retribuzione ferma, carriera bloccata, organici carenti: il risultato è un livello di soddisfazione professionale solo parziale. Secondo gli studi analizzati nel rapporto, solo il 50% degli infermieri si dichiara pienamente soddisfatto, con forti variazioni a seconda del contesto: si va da punte del 70-80% in alcuni setting ben organizzati, fino a un preoccupante 25% in contesti più critici.

Quasi 1 infermiere su 3 dichiara di pensare spesso a cambiare lavoro o a spostarsi in un’altra unità operativa. Un dato che, incrociato con il fenomeno del turnover e con le assenze strutturali (il tasso di assenza medio è del 16,2%), delinea un quadro di malessere diffuso. La pandemia, paradossalmente, ha fatto aumentare il riconoscimento sociale della professione, ma non è bastata a cambiare le regole del gioco.

Un capitale umano che rischia di fuggire

L’Italia ha già un numero di infermieri inferiore alla media europea: 6,5 per 1.000 abitanti, contro una media di 8,4. In alcune regioni si scende sotto i 4 (Lombardia, Campania, Sicilia). Il rischio concreto è che, senza interventi urgenti, la professione infermieristica perda ulteriori pezzi. O verso altri settori, o verso l’estero.

Un problema non solo sindacale o occupazionale, ma di tenuta del sistema sanitario nazionale, che si trova già sotto pressione per l’invecchiamento della popolazione, la cronicizzazione delle patologie e la riorganizzazione della medicina territoriale.

Cosa serve: proposte (urgenti) dal rapporto

Il rapporto FNOPI-Sant’Anna non si limita alla diagnosi. Tra le raccomandazioni emergono con forza tre priorità:

  1. Adeguare le retribuzioni al livello europeo, sia per motivi di equità che per attrattività.

  2. Investire nelle carriere infermieristiche, valorizzando il merito, la formazione avanzata e la leadership clinica.

  3. Integrare meglio gli infermieri nei vertici decisionali, nelle direzioni sanitarie e nei distretti.

Un investimento che, secondo gli autori, non è solo morale, ma anche economico: una professione motivata e stabile produce migliori esiti di salute, minori costi per il sistema e più soddisfazione per i pazienti.