Infermiere denuncia abusi e minacce in ospedale: ‘Mi hanno distrutto la vita’
Un professionista con oltre vent’anni di esperienza racconta l’inferno vissuto in un ospedale pubblico: minacce, demansionamenti e isolamento.
Si firma solo come Marco, nome di fantasia per tutelare la sua identità, ma la sua voce è quella di tanti infermieri che vivono in silenzio la stessa realtà: mobbing, intimidazioni e isolamento sul posto di lavoro, dentro quelle stesse strutture che dovrebbero tutelare la salute e la dignità delle persone.
Marco è un infermiere con oltre vent’anni di esperienza, specializzato in procedure complesse di cardiologia e neuroradiologia interventistica. Ha lavorato in centri di eccellenza, in Italia e all’estero, accanto a figure di rilievo della sanità.
Ma da quando è rientrato nella sua regione d’origine, la sua vita professionale è diventata un incubo.
“Tutto è iniziato quando ho denunciato l’uso improprio del personale infermieristico — racconta —. Colleghi altamente qualificati venivano assegnati a mansioni amministrative, in una gestione che definire discutibile è poco. Da quel momento sono cominciate minacce, insulti, turni punitivi e infine un trasferimento forzato.”
Il suo racconto è una sequenza di abusi e omissioni: modifiche arbitrarie dei turni, esclusione dalle attività cliniche, ostacoli nell’ottenimento di ferie e congedi, fino al deterioramento della sua salute psico-fisica.
I referti medici parlano chiaro: depressione, ansia, insonnia, dermatiti da stress.
Ma ciò che colpisce di più è l’indifferenza del sistema.
“Ho denunciato tutto, fino alla Procura. Ho fornito prove, registrazioni, testimonianze. Ma nessuno ha mosso un dito. Anzi, più parlavo, più aumentavano le ritorsioni.”
Marco parla di un “sistema che si protegge da sé”, dove dirigenti e primari si sostengono reciprocamente, e chi prova a denunciare finisce isolato.
“Anche curarsi è difficile — spiega —. Alcuni medici non vogliono certificare per paura di esporsi. Ho perso soldi, salute e dignità. Mi sento abbandonato.”
Non si tratta di un caso isolato. Secondo segnalazioni raccolte da altre fonti, anche altri professionisti della stessa azienda sanitaria avrebbero subito comportamenti simili, in un contesto di pressioni e favoritismi che rendono impossibile lavorare con serenità.
Marco oggi è ancora in attesa di una ricollocazione che gli consenta di tornare a esercitare in sicurezza, ma le sue richieste sono rimaste inascoltate.
“Temo per la mia salute e per quella dei pazienti — dice —. Se un lavoratore distrutto deve assistere persone fragili, chi tutela davvero la sicurezza in ospedale?”
Oltre la denuncia
La vicenda di Marco non è un caso isolato. È il riflesso di una sanità pubblica ferita, dove l’etica professionale viene spesso sacrificata sull’altare di logiche di potere, di protezione interna e di complicità silenziose.
Dietro i camici, dietro la dedizione di migliaia di professionisti che ogni giorno tengono in piedi reparti e servizi, si nascondono troppe storie di paura, di isolamento e di ingiustizia.
Il mobbing, nel contesto sanitario, non è solo un problema lavorativo: è una patologia del sistema.
Un male che si insinua nelle corsie, nelle direzioni, nelle relazioni gerarchiche, e che finisce per corrodere la salute mentale e la dignità dei professionisti.
Quando un infermiere, un medico o un operatore sanitario diventa vittima di intimidazioni e ritorsioni, non si ammala solo la persona — si ammala l’intera struttura che lo circonda.
Ogni atto di abuso taciuto, ogni denuncia ignorata, ogni trasferimento punitivo non sono solo un’offesa al singolo lavoratore, ma un colpo inferto alla credibilità e all’umanità del sistema sanitario pubblico.
E mentre chi denuncia paga con la salute, con lo stipendio, con la propria serenità, chi abusa di potere continua indisturbato a esercitare il proprio ruolo, protetto da una rete di silenzi e connivenze.
È questa la vera emergenza: il silenzio istituzionale.
Quel silenzio che soffoca la verità, che costringe le vittime a giustificarsi, a nascondersi, a implorare attenzione da chi avrebbe invece il dovere di proteggerle.
La storia di Marco, e di tanti come lui, dovrebbe diventare un monito per le istituzioni, per le aziende sanitarie e per la politica: non basta parlare di sicurezza sul lavoro, di benessere organizzativo, di prevenzione del burnout.
Serve un cambio culturale radicale, che riconosca e protegga il valore umano e professionale di chi lavora nella sanità.
Perché un sistema che non tutela i propri operatori, non potrà mai tutelare davvero i pazienti.
Il coraggio di denunciare dovrebbe essere un atto di giustizia, non una condanna alla solitudine.
E ogni storia come quella di Marco ci ricorda una verità che non può più essere ignorata:
chi cura gli altri non dovrebbe mai ammalarsi di silenzio.