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Il destino... dell'Ospedale senza letti

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La Redazione
Pubblicato il: 27/11/2020 vai ai commenti

Punto di Vista

Aghi pungenti...

pensieri di satira sanitaria

 

di Emilio Benincasa

 

Quelli che stiamo attraversando sono giorni di incertezza e dolore, dove anche gli animi sono scossi, dove anche la tempra più forte risulta provata e dove vacilla la speranza. Per questi motivi ho deciso di parlare, di dire la mia.

A voi dirò tutta la verità. Sono nato esattamente trent'anni fa con rigoroso rituale. Ricordo il taglio del nastro compiuto dall'Assessore "Mangione" e la liturgica benedizione aspersa da Monsignor "Sconfesso". Sono stato battezzato con il nome di Ospedale della Speranza.

 

Dopo dieci anni di servizio mi hanno dismesso. Trent'anni sono un’età incredibilmente avanzata per un'ospedale: le creature della nostra razza che senza essere usati, sono destinati a vivere molto meno delle tazzine da caffè che sonnecchiano nelle cristalliere.

Attraverso i vetri appannati o almeno di quelli che ne rimangono, ormai da anni vedo splendere pallide albe e mesti tramonti. Della mia famiglia non vive più nessuno, i miei genitori, addirittura i miei fratelli e sorelle sono scomparsi da tempo, mentre io devo compiere il mio trentesimo compleanno da solo, con il vento che fischia tutt'intorno in compagnia di colombe e passeri litigiosi che qui hanno stabilito ormai dimora fissa.

 

Mio padre si chiamava Pronto Soccorso, mia madre una rispettabile donna di nome Rianimazione. Avevo un fratello di nome Laboratorio e quattro sorelle: Chirurgia, Cardiologia, Ortopedia e Medicina. La nostra famiglia restò unita solo per dieci anni. Furono anni splendidi.

Mio Padre Pronto Soccorso, era un uomo generoso, accoglieva tutti quelli che poteva con la stessa dignità e cura. Correva tutto il giorno con infaticabile lena, non si risparmiava per nessuno. Si riposava nelle pause di poco afflusso che lui chiamava "compensatorie" e usava queste pause per confortare quanti erano presenti.

Mia Madre Rianimazione, era una donna straordinaria. Da lei era soprattutto il silenzio che regnava dove la vita è sospesa, dove la fede e la cura si tengono per mano e si accompagnano verso la scienza e il mistero: ora verso la guarigione ora verso la dipartita. Mia madre si prendeva cura delle basi della vita; custodiva il battito del cuore e il respiro.

 

Le mie quattro sorelle che ormai conoscete, si occupavano ognuno per la propria parte di competenza di quanti avevano bisogno. Il tutto con l'aiuto di mio fratello Laboratorio, che dava letteralemente i numeri. Dal prezioso sangue ricavava altrettanto preziosi cifre, che andavano corrette, analizzate e interpretate.

Furono anni felici, pieni di ringraziamenti e riconoscimenti per quello che riuscivamo a fare nell' Ospedale della Speranza per le persone e per la salute pubblica. Ma, la gioia degli anni fu oscurata ben presto dalla morte di mio padre. Una morte improvvisa, inspiegabile che portò sgomento.

 

Al commiato generale, da sopra un palco di menzogne, l'assessore "Mangione" comunicò ai cittadini che si trattò di un caso "dismissione urgente e non differibile" e fu cosi che, dovemmo dividerci dal nostro amato padre. Da quel giorno in poi, il declino della nostra famiglia era segnato. Nel giro di poco tempo iniziarono a manifestarsi le stranezze di mia madre, la insoddisfazione dei miei fratelli che si lamentavano di non essere apprezzati e riconosciuti nella loro vera funzione e vocazione.

 

Iniziai a preoccuparmi cercando di capire quali fossero i motivi della nostra rovina. Pian piano presi subito coscienza che nel tempo i Decisori sanitari, avevano iniziato a sostituire la dedizione e il merito dei nostri operatori con l'opportunismo e la raccomandazione di provenienza baronale.

Iniziavo a venire usato come un contenitore di affari e tresche di torbida politica.  Una mangiatoia per un manipolo di Decisori ingordi. Un freddo algoritmo senza possibilità di dispensare le giuste cure, usato insomma  come scodellino per il sapone da barba.

 

Fu così che mi depredarono di tutto. Nel giro di pochi giorni quasi tutte le apparecchiature furono trasferite. Poi fu la fine; la ditta incaricata smontò i letti che furono incartati e portati via in qualche altro Ospedale da predare o peggio ancora in qualche scantinato ad arruginire.

A coloro che stanno leggendo ancora inclini a seguire i miei pensieri, dotato di tanto cuore da concedere anche ad un Ospedale senza letti saggezza di vita, sentimento di dolore e dignità, posso ora comunicare che i colombi e i passeri in un attimo di tregua hanno beccato da tempo le ultime cibaglie e che per me non esiste immediato pericolo di vita.

 

Nel frattempo sui vetri appannati, si è formato un tondo lucido – della grandezza di un piatto – e dentro riesco a vedere chiaramente il passaggio della tempesta del virus e penso che se non mi avessero spogliato e umiliato, oggi sarei stato utile ad alleviare le sofferenze; utile e prezioso come un tempo.