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Infermiere rifiuta di curare il paziente per paura del contagio: licenziamento legittimo

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 08/09/2025

La SentenzaLeggi e sentenzeProfessione e lavoro

 

Con l’ordinanza n. 24562 depositata il 4 settembre 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha confermato la legittimità di un licenziamento per giusta causa irrogato a un infermiere per essersi rifiutato di prestare assistenza sanitaria a un paziente infetto da Acinetobacter baumannii, invocando presunti rischi per la propria salute non adeguatamente fronteggiati dal datore di lavoro.

La decisione riveste particolare rilievo per la delimitazione dei confini tra il diritto alla sicurezza del lavoratore (ex D.Lgs. 81/2008) e i doveri connessi alla natura della prestazione sanitaria, specie nei casi in cui l’adempimento venga unilateralmente sospeso in assenza di riscontri oggettivi.

La vicenda

Il lavoratore, dipendente di una struttura privata accreditata operante in regime di riabilitazione estensiva, aveva rifiutato di somministrare terapie salvavita a un paziente infetto, adducendo carenze nei dispositivi di protezione individuale (DPI) e presunti rischi equiparabili al contagio da COVID-19. L'episodio è stato accompagnato da ulteriori condotte contestate dalla datrice di lavoro, tra cui:

  • diffusione di informazioni allarmistiche e non verificate,

  • utilizzo improprio del cellulare durante il turno,

  • presunto turbamento dell’ordine e della serenità operativa.

La società ha quindi avviato un procedimento disciplinare, conclusosi con un licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale di primo grado aveva annullato il licenziamento, ma la Corte d’appello di Reggio Calabria ha riformato integralmente la decisione, ritenendo gravissima l’inadempienza del lavoratore e pienamente giustificato il recesso per giusta causa. Contro tale sentenza, il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione, articolato su quattro motivi.

Le questioni giuridiche sollevate

Il ricorrente ha lamentato, tra gli altri, i seguenti vizi:

  • violazione degli artt. 18 e 20 del D.Lgs. 81/2008;

  • travisamento della prova e uso improprio delle dichiarazioni rese in sede disciplinare;

  • erronea applicazione dell’art. 115 c.p.c. (principio di non contestazione);

  • vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.

La Corte ha ritenuto inammissibili le censure motivate su questioni di fatto e ha escluso la violazione delle disposizioni indicate, confermando la correttezza dell’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello.

La decisione

Il nucleo motivazionale dell’ordinanza ruota attorno alla interpretazione dell’art. 20 D.Lgs. 81/2008, norma che disciplina gli obblighi del lavoratore in materia di salute e sicurezza. La Corte ha chiarito che:

“Il potere/dovere di segnalazione dei rischi è funzionale all’adempimento dell’obbligazione lavorativa, ma non legittima un’autonoma sospensione della prestazione in assenza di un riscontro oggettivo e documentato dell’inidoneità dei mezzi di protezione.”

La Cassazione ha evidenziato che:

  • nessuna prova era stata offerta dal lavoratore circa una sua effettiva richiesta di DPI supplementari o una risposta negativa del datore;

  • il comportamento si è tradotto in una autovalutazione soggettiva di pericolo, non fondata su evidenze mediche o su un confronto con le figure gerarchiche (caposala o medico);

  • il rifiuto di prestazione ha rappresentato un inadempimento essenziale, incompatibile con la natura sanitaria dell’attività e con il dovere di diligenza ex art. 2104 c.c.

Inoltre, il lavoratore ha agito in violazione delle disposizioni interne sul corretto uso dei dispositivi, interferendo con la gestione organizzativa della struttura sanitaria.

Il valore della posizione di garanzia nei contesti sanitari

Di particolare rilievo è il richiamo della Corte alla "posizione di garanzia" propria degli operatori sanitari, i quali devono garantire l’effettiva tutela della salute dei pazienti, anche in contesti potenzialmente rischiosi. Tale posizione impone un dovere rafforzato di intervento, responsabilità e collaborazione, non compatibile con scelte arbitrarie o soluzioni individuali fuori dal quadro normativo e protocollare.

Con questa ordinanza, la Cassazione ribadisce un principio già tracciato dalla giurisprudenza più recente: la sicurezza sul lavoro è un obbligo bilanciato, e non può essere invocata in modo unilaterale per giustificare il rifiuto della prestazione, specie in ambito sanitario, senza un’adeguata documentazione e interlocuzione con le figure preposte.

La decisione rafforza il presidio della giusta causa nei casi di violazione del dovere di diligenza, subordinazione e responsabilità sanitaria, valorizzando il ruolo degli infermieri come soggetti centrali nella tutela della salute pubblica, non solo nella cura, ma anche nel rispetto delle regole organizzative e di sicurezza condivisa.