Valorizzazione delle competenze e identità professionale: cosa manca alla professione?
La collega Aurora Medonica, nel novembre di due anni fa inviava una lettera al direttore che Quotidiano Sanità pubblicava nell’omonima rubrica il giorno 22; nella missiva, la collega raccontava come sia organizzata su nove livelli la carriera infermieristica nel Regno Unito, come le competenze via via acquisite siano immediatamente valorizzate, tanto più se acquisite a spese del servizio sanitario e come sia tutto sommato agevole spostarsi da un’area di lavoro all’altra potendo comunque occuparsi anche di gestione e formazione.
Qualcosa di molto diverso dalle nostre realtà dove l’infermiere, tanto più se abile allo svolgimento del lavoro su turni di 24 ore, può sperare solo ed esclusivamente di spostarsi certamente in un altra area ma sempre e comunque a parità di prestazione oraria.
Figuriamoci poi se quell’infermiere dovesse acquisire una competenza specialistica ulteriore a proprie spese, non so, un master in sorveglianza epidemiologica tanto per citarne uno: potrebbe sperare un attimo dopo di andare a collaborare con il comitato per le infezioni ospedaliere? E lasciare scoperto il suo posto h 24? Giammai….
Per farlo ci vorrebbe qualcuno che lo sostituisca nel suo bel reparto di medicina (uno a caso). E dove lo trovi un collega che non vede l’ora di andare a lavorare in medicina al tuo posto? Anzi, dove lo trovi proprio un altro infermiere in quest’epoca di carenza dove ormai le domande di accesso alla laurea sono praticamente in numero pari ai posti disponibili?
Il massimo è quando un corso specialistico è anche pagato dall’azienda che si presume, avrebbe poi interesse a ripagare l’investimento attribuendo la nuova funzione al professionista di turno e lasciando invece che quella competenza marcisca insieme all’attestato perché li dove serviresti, c’è già il pieno e l’ufficio infermieristico ha il solo interesse a “garantire la continuità assistenziale”.
Come si fa allora a rendere appetibile una professione che non ha ancora compreso qual è il suo compito e qual è il suo ruolo?
Perché parliamoci chiaro, se il compito di un infermiere di medicina, tra gli altri, (sempre e solo per fare un esempio nessuno me ne voglia) è quello di dare contemporaneamente a trenta pazienti l’antibiotico alle otto (spero che qualche studente si prenda la briga un giorno di studiare un metodo che lo consenta) e rincorrere le altre solite, consuete attività sperando di starci dietro anziché venirne sommerso, cosa potrebbe rendere attrattiva la professione se non un percorso certo di valorizzazione delle competenze via via acquisite, il loro effettivo utilizzo e il conseguente adeguamento retributivo?
Ecco allora la corsa alla laurea specialistica e al master in coordinamento che sono attualmente gli unici due strumenti accessibili per saltare da una categoria all’altra.
Ma quindi ci sono due categorie? Sostanzialmente si, e sono popolate la prima da quelli che fanno i turni h 24 e gestiscono la continuità assistenziale e la seconda da tutti gli altri. Perché diciamocela tutta, questa è la vera differenza che esiste oggi tra un infermiere e l’altro: chi corre dietro all’assistenza e chi invece risponde di un programma, di un’agenda.
Organizzazione del lavoro verrebbe da suggerire quindi quale soluzione per rendere la vita di corsia più accettabile, ma per fare cosa? Davvero, cosa distingue il lavoro di un operatore socio sanitario da quello di un infermiere? Può essere la somministrazione dei farmaci il nostro vallo di Adriano?
La differenza com’è noto e prima che cominci a sentire gli effetti degli strali, sta nella parola “responsabile” che qualifica la nostra categoria ed impone la definizione di un piano assistenziale basato sui bisogni del paziente colpito in quel momento, da questa o quella patologia. Come si traduce questo in un turno da sette ore e dodici? Qualcuno ha la soluzione?
Io una risposta me la sono data e nella mia traduzione significa che l’infermiere di corsia dovrebbe passare la maggior parte del tempo a produrre piani assistenziali, a revisionarli e aggiornarli sulla base del decorso clinico, psicologico e quindi umano del ricovero. Qualcosa che significherebbe passare gran parte delle ore a parlare col paziente in un confronto interrotto al massimo da quelle funzioni tecniche inalienabili: una medicazione, un cateterismo ecc. In questo senso si che avrebbe molta importanza la presenza di un operatore cui delegare o perlomeno coinvolgere in quelle pratiche impossibili quali appunto la somministrazione contemporanea della terapia per tutti alla stessa ora (mi sono sempre chiesto che effetti possa avere assumere la stessa pastiglia prescritta alla stessa ora per una settimana un giorno alle otto, il giorno dopo alle 12 e l’altro ancora alle 10 a seconda che il giro cominci da un capo o dall’altro della corsia).
Invece no, la gavetta passa proprio e solo da quell’esercizio impossibile e tu, prima che te ne accorgi, hai maturato in pochi anni un senso di abbandono e di inutilità nello svolgere la parte più difficile della nostra professione, il prendersi cura, che penserai di poter risolvere solo quando la fortuna o un buon ufficio, ti metterà nella condizione di dedicarti a qualcosa di molto specifico e tecnico, qualcosa per cui il paziente lo vedi quel momento e mai più o al prossimo accesso.
I rinnovi contrattuali dovrebbero tentare di dare risposte anche a questo, forse soprattutto a questo.
Andrea Tirotto