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Intervista a Sonia Tumminia sul disturbo antisociale di personalità

Vincenzo Rauccidi
Vincenzo Raucci
Pubblicato il: 13/07/2023

AttualitàProfessione e lavoroStudi e analisi

All’interno dell’ampia inchiesta che la redazione di InfermieristicaMente ha deciso di realizzare sulla chiusura degli OPG, sulle REMS, sui pazienti autori di reato e sugli aspetti organizzativi dell’assistenza territoriale in salute mentale, abbiamo voluto intervistare una psicoterapeuta, la dott.ssa Sonia Tumminia, su aspetti più specifici che riguardano prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette dal cosiddetto “disturbo antisociale di personalità”. Ringrazio, quindi, la dott.ssa Tumminia per essersi messa a nostra disposizione e averci concesso questa intervista.

Come abbiamo avuto modo di apprendere, leggendo il suo curriculum, lei ha frequentato, nell’ambito del suo esercizio professionale, alcuni istituti di pena. Che esperienza riporta dal contatto col cosiddetto “folle reo”?

Si, ho frequentato anni fa alcuni istituti di pena per lavoro ma anche, in contesto di psicoterapia privata, ex detenuti in fase di disorientamento emotivo nel reinserimento alla vita sociale dopo anni di reclusione. La domanda che mi pone è interessante già per le parole “folle reo”, mi chiedete che esperienza riporto con questo tipo di detenuto. Non credo che ogni persona che commette un reato sia necessariamente folle o, per lo meno, dovremmo trovare criteri oggettivi riconosciuti come tali per stabilire cosa si intenda con la parola “follia” correlata a “reo”; se la follia escluda o meno sempre l’intenzionalità nel commettere il reato ad esempio, o ancora in quale fase processuale si possa rilevare o meno un’incapacità di intendere e volere e quanto questa sia poi da considerarsi fattore caratterizzante o discriminante del Disturbo di Personalità diagnosticato. Ricordo un’esperienza di molti anni fa in un istituto di detenzione in Svizzera: i detenuti in fine pena carcerati per aver commesso reati di entità significativa, durante i colloqui volti al reinserimento sociale dimostravano spesso consapevolezza, fredda lucidità e padronanza delle proprie azioni antisociali senza alcun tipo di negazione difensiva o non intenzionalità; è questa follia o non follia, dunque, per la massa che ascolta i mass media quando si diffondono casi di reati efferati e per i professionisti legali e/o sanitari?

Si generalizza, spesso, sui pazienti autori di reato, come se soffrissero tutti dello stesso disturbo. Ma ci sono profonde differenze tra chi soffre di una forma di psicosi e chi soffre, invece, di un disturbo antisociale di personalità. No?

Domanda molto importante, grazie. Esiste forte, sempre più forte, una tendenza ad equiparare forme di psicopatie automaticamente allo stesso disturbo. Ultimamente qualsiasi reato efferato viene spesso associato ad esempio al Disturbo Narcisistico di Personalità che, a sua volta, viene non di rado “accorpato” al Disturbo Antisociale. Si confonde la comorbilità con la diagnosi. Non sono la stessa cosa ed è bene distinguerli per prevenire reiterazioni, ad esempio, una volta reinseriti nel sociale. Il Disturbo Antisociale di Personalità è in assoluto il più presente all’interno dei contesti di giustizia penale seppur sia poco studiato in realtà e molto confuso nella sua effettiva diagnosi. Ricordiamoci che per questa tipologia di disturbo ancora non esiste un vero e proprio trattamento considerato come oggettivamente più efficace, nemmeno in termini preventivi; esistono, però, caratteristiche che, se ben conosciute e diffuse, portano ad identificare la diagnosi: ribellione e non conformità alle regole sociali, opposizione verso comportamenti approvati e considerati leciti in base alla cultura di riferimento, atteggiamenti aggressivi ed impulsivi, non considerazione e disprezzo per emozioni e sentimenti altrui e la loro sicurezza, disprezzo per la propria stessa sicurezza ma anche per tutto ciò che ne consegue dal proprio comportamento. Non riconoscono le proprie emozioni di base e, conseguentemente, nemmeno quelle altrui. Il Disturbo Antisociale di Personalità, spesso erroneamente automaticamente associato al Disturbo Narcisistico di Personalità, è quello che più di tutti gli altri aumenta la probabilità di azioni fortemente aggressive e violente, fino allo sfociare nel crimine. Non esiste ancora un trattamento prescelto come quello d’elezione, motivo per cui è fortemente probabile la reiterazione del reato una volta reinseriti.

Vorrei soffermarmi sul disturbo antisociale di personalità e cominciare ad affrontare le tre questioni poste in apertura, ovvero la prevenzione, la cura e la riabilitazione. Comincerei da quest’ultima: che tipo di riabilitazione è possibile, per queste persone, e in quali contesti?

Come accennavo precedentemente, ad oggi non è stato segnalato in termini di efficacia un trattamento elettivo, motivo per cui la recidiva è ad oggi altissima. Ad oggi, però, i trattamenti più efficaci, di lunga durata e che prevedono una costanza nell’impegno, pare siano quelli basati sulla mentalizzazione, ovvero un lavoro psico-educativo guidato mirato al riconoscimento, etichettatura e comprensione delle proprie emozioni per poi comprendere quelle altrui. Cosa viene fatto in pratica? Viene aiutato il soggetto in questione a correlare una determinata situazione emotiva coerentemente ad un fatto accaduto, supportandolo nella contestualizzazione delle emozioni. Resta poi aperto il dibattito sulla motivazione reale nella volontà di apprendere quanto insegnato, ovvero se l’approccio d’impronta empatica sia o meno efficace, in termini di interesse, dimostrato come autentico da parte del paziente con Diagnosi di disturbo antisociale. Pare però che i risultati con questo tipo di approccio abbiano portato a risultati in termini di riduzione graduale dell’istinto rabbioso, molti meno agiti violenti e maggior rispetto verso l’altro da sé. Alcuni approcci basati sulla mentalizzazione vengono poi concretizzati in forme espressive come la teatro-terapia, efficace basandosi sullo scambio di ruolo (es. vittima -carnefice).

Per la prosecuzione delle cure, spesso il magistrato dispone il passaggio dal carcere alle REMS o, in alcuni casi, alle Comunità Riabilitative Psichiatriche. Secondo lei tali contesti sono attualmente idonei per la presa in carico di queste persone?

Attualmente dicono che per il Disturbo Antisociale di Personalità la terapia, ovvero il “luogo di cura” più adatto, sia il ricovero in strutture specializzate per la cura di questo disturbo, spesso centri all’interno degli stessi Istituti Penitenziari ed in particolare in comunità. Personalmente faccio fatica a ritenere ad immaginare il carcere come se fosse una succursale di un reparto psichiatrico. Circa le residenze per le misure di sicurezza (REMS), strutture d’accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi e le comunità riabilitative psichiatriche, resta sempre a mio avviso aperta una domanda fondamentale: non se vadano bene o meno in quanto strutture sicuramente organizzate ma quanto sia indispensabile valutare il livello di motivazione alla cura del soggetto ospitato. A mio avviso la metodologia basata sul riconoscimento del sé emotivo attraverso mentalizzazione e metodi psico-corporei per iniziare a “sentirsi”, riformulando la disregolazione emotiva caratterizzante questi soggetti, sicuramente almeno all’inizio andrebbe effettuata in “contesti protetti”, in cui il reo sia in situazione di auto ed etero protezione.

E veniamo ora alla prevenzione, sicuramente la dimensione più interessante, dal momento in cui la stessa, se correttamente applicata, risolverebbe tanti problemi. Quale prevenzione è possibile per ridurre l'insorgenza dei disturbi antisociali di personalità?

Ad oggi non esiste un modo certo e sicuro per prevenire lo sviluppo di un disturbo antisociale di personalità di certo, però, vedendo in accordo molti studiosi della psiche nel ritenere che veda poggiare radici nell’infanzia, sicuramente è lì che l’osservazione mirata, come metodo preventivo, da parte di genitori e insegnanti, vada a poter fare molto, laddove gli stessi siano in possibilità emotiva di poterla attuare. Esistono “fattori di rischio”, infatti, che iniziando in una graduale ascesa dall’età infantile in avanti, hanno caratterizzato, accomunandoli, soggetti con disturbo antisociale poi sfociante in crimine, tra questi: crudeltà e violenza familiare, umiliazioni subìte (fattore fortemente presente), piromania in età infantile, traumi cranici in età infantile, tortura di animali, trascuratezza genitoriale e poi, crescendo, alcolismo, dipendenza sessuale e così via. Ritengo poi, per mia pura opinione basata su esperienza vasta in contesti formativi ad alto rischio di dispersione scolastica con utenze molto compromesse socialmente in fascia d’età fino a 16 anni, e sempre proporrò la mia idea che, se fossero obbligatori nelle scuole, dalla materna in poi, i laboratori di educazione alle emozioni e il teatro come metodo formativo alla comprensione di sé e dell’altro, oltre a metodi introspettivi come meditazione quale modulo didattico, l’anima verrebbe educata alla calma come sistema appreso in termini preventivi fino alla cristallizzazione come modus vivendi.

Ringraziamo la dott.ssa Sonia Tumminia che si è prestata a questa interessante intervista, promettendovi fin d’ora che ne seguirà un’altra, più approfondita, realizzata in video alla fine di questa estate.
Intanto, per chi volesse conoscere meglio la nostra interlocutrice, vi forniamo il suo sito: www.soniatumminia.it

 

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La pericolosità sociale del paziente e delle nostre istituzioni

https://www.infermieristicamente.it/articolo/16957/la-pericolosita-sociale-del-paziente-e-delle-nostre-istituzioni

La legge 81: l’inizio della fine

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