Riscatto laurea triennale, la beffa: tre anni pagati varranno solo sei mesi. Ecco come
C’è chi la definisce senza mezzi termini una beffa. Le ultime correzioni alla Legge di Bilancio 2026, contenute nel maxi emendamento con cui il Governo cerca di far quadrare i conti pubblici, rischiano di cambiare radicalmente le regole del riscatto degli anni di studio universitari. E di penalizzare proprio chi, negli anni passati, ha investito migliaia di euro per anticipare l’uscita dal lavoro.
Il punto è semplice: gli anni di laurea riscattati continueranno a esistere sul piano contributivo, ma varranno sempre meno per raggiungere i requisiti della pensione anticipata. Fino quasi a svuotarsi di significato.
Un taglio progressivo fino a regime
Il nuovo meccanismo introduce una riduzione graduale del valore degli anni riscattati ai fini dell’uscita anticipata dal lavoro. La decurtazione scatterà dal 2031 e aumenterà di anno in anno:
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nel 2031 verranno sottratti 6 mesi;
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nel 2032 la riduzione salirà a 12 mesi;
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nel 2033 si perderanno 18 mesi;
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nel 2034 il taglio sarà di 24 mesi;
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dal 2035, a regime, verranno sottratti 30 mesi, cioè due anni e mezzo.
In pratica, tre anni di riscatto potrebbero valere appena sei mesi. Cinque anni di università, due anni e mezzo. La metà, o anche meno.
Contributi pagati, ma inutili per uscire prima
La novità non cancella formalmente i contributi: gli anni riscattati restano nell’estratto conto previdenziale e incidono sull’importo dell’assegno. Ma perdono quasi del tutto la loro funzione di “acceleratore” verso i 42 anni e 10 mesi di contributi richiesti per la pensione anticipata (41 anni e 10 mesi per le donne).
È questo il nodo che fa parlare di beffa. Chi ha riscattato una laurea triennale, ad esempio, potrebbe ritrovarsi nel 2035 con soli sei mesi utili per anticipare l’uscita, pur avendo pagato per 36 mesi di contributi. Un investimento pensato per guadagnare tempo che, di fatto, non serve più a quasi nulla.
Il caso tipico: quattro anni pagati, uno e mezzo riconosciuto
Un esempio chiarisce meglio l’impatto concreto. Un lavoratore che ha riscattato quattro anni di studi universitari (48 mesi) contando di andare in pensione prima, nel 2035 vedrà “tagliati” 30 mesi. Gliene resteranno utili solo 18.
Risultato: dovrà lavorare almeno altri due anni e mezzo rispetto a quanto pianificato, nonostante quei contributi siano stati versati integralmente. E spesso a caro prezzo.
I dubbi di incostituzionalità
Non sorprende che diversi esperti parlino apertamente di possibili profili di incostituzionalità. Le obiezioni principali sono due.
La prima riguarda il principio di affidamento: molti lavoratori hanno riscattato la laurea anni fa, in base a regole diverse. Cambiare le carte in tavola a posteriori, svalutando contributi già pagati, rischia di essere visto come un colpo di spugna su diritti acquisiti.
La seconda riguarda la disparità di trattamento. La penalizzazione colpisce una platea ben definita, soprattutto i laureati triennali che hanno riscattato presto gli studi ma matureranno i requisiti pensionistici più avanti, trovandosi sottoposti a una disciplina nuova e più sfavorevole.
Laurea breve, il conto più salato
I più colpiti sembrano essere proprio i laureati triennali. Chi ha riscattato tre anni di università per anticipare la pensione, se raggiungerà i requisiti nel 2035, si vedrà riconosciuti solo sei mesi utili ai fini dell’uscita.
In altre parole: hai pagato per tre anni, ma come “scivolo” pensionistico te ne vale mezzo. Il riscatto continuerà a pesare positivamente sull’assegno finale, ma perderà quasi del tutto la sua ragion d’essere originaria.
Finestre più lunghe e doppia penalizzazione
Alla svalutazione del riscatto si aggiunge un’altra stretta: l’allungamento delle finestre mobili, cioè il tempo di attesa tra il raggiungimento dei requisiti e il primo assegno pensionistico.
Fino al 2031 l’attesa resterà di tre mesi. Dal 2032 inizierà ad allungarsi, fino a raggiungere i sei mesi nel 2035. Una doppia penalizzazione per chi punta all’uscita anticipata.
C’è però una clausola di salvaguardia. Le nuove regole non si applicheranno a chi, a gennaio 2026, risulterà già inserito in accordi collettivi di accompagnamento alla pensione o utilizzerà strumenti straordinari dei fondi di solidarietà. Chi ha già un percorso di uscita definito, dunque, non vedrà cambiare le carte in tavola.
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