Agnes Nambozo: l'infermiera che scala le montagne per salvare vite in Uganda
Mentre in Italia il dibattito sulla questione infermieristica si avvita su se stesso, nel cuore degli aspri altopiani orientali dell'Uganda, ai piedi del Monte Elgon, le strade finiscono dove iniziano sentieri fangosi e scale di legno appese alla roccia, lavora Agnes Nambozo, un'infermiera che da oltre un decennio è un punto di riferimento per le comunità montane del distretto di Bulambuli. Di stanza al Buluganya Health Centre III, il suo nome ha superato i confini del villaggio per arrivare sulle pagine delle GatesNotes di Bill Gates e sui social network, dove i suoi video mentre sale una scala traballante con una ghiacciaia blu sulla schiena sono diventati virali.
La sua storia, però, va ben oltre l’immagine spettacolare della scala sospesa nel vuoto: è il racconto quotidiano di come l’impegno di un’infermiera possa tradursi in vite salvate, in una regione dove per molti l’accesso alla sanità è ancora un privilegio.
Una vocazione nata tra sogni e paure
Da bambina, Agnes sognava di diventare poliziotta. Sua madre, preoccupata per i rischi del mestiere, la convinse a scegliere una strada “più sicura”. Fu così che si iscrisse a un corso per infermieri, scoprendo ben presto quanto quella professione le permettesse di essere vicina alle persone nei momenti più fragili della loro vita. Si innamorò del lavoro, pur rendendosi conto che, nelle montagne dell’Uganda orientale, neppure l’infermieristica è davvero “sicura”. Oggi, Agnes è una professionista che incarna perfettamente il profilo dell’infermiera di comunità rurale africana: multidisciplinare, radicata nel territorio, capace di adattarsi a contesti difficili. In un solo turno può passare dall’assistenza a un parto alla medicazione di una ferita, fino all’educazione sanitaria su igiene, alimentazione e pianificazione familiare.
Una giornata tipo tra taxi, moto e scale sospese
La giornata di Agnes comincia alle 6 del mattino, quando lascia la sua casa a Sironko. Raggiunge Buyaga in taxi, poi prosegue in moto fino alla clinica di Buluganya, dove inizia la preparazione delle scorte per la giornata. I vaccinatori rurali come lei devono trasportare tutto sulle proprie spalle: aghi, siringhe, moduli di registrazione, farmaci di base e soprattutto vaccini, che devono restare a temperatura controllata. Per questo Agnes imbraccia una borsa termica carica di ghiaccio, che pesa già parecchi chili prima ancora di aggiungere il resto dell’attrezzatura. Verso le 8 del mattino è pronta a ripartire: un’altra moto la porta fino a un punto di raccolta, oltre il quale i mezzi non possono più procedere. Da lì inizia il tratto più impegnativo, quello a piedi. Il sentiero sale ripido tra fango, rocce e vegetazione fitta, fino ad arrivare alla famosa scala di legno che collega i villaggi appollaiati sui versanti della montagna. Questa struttura, lunga quasi 300 metri verticali, è l’unico collegamento praticabile per chi vive più in alto. Per bambini piccoli, anziani, persone malate o donne incinte, discendere la scala è quasi impossibile. I bambini più grandi la usano per andare a scuola, ma le madri con un neonato in braccio non possono affrontare un simile rischio. È per questo che Agnes va da loro. “Le scale sono rischiose perché potresti scivolare. Se sei fortunato, puoi procurarti una frattura. Se non sei fortunato, puoi perdere la vita”, racconta, descrivendo bene quanto ogni salita sia una scommessa con il vuoto.
Vaccini, prevenzione e cure in cima alla montagna
Quando Agnes arriva finalmente al villaggio – spesso verso le 10:30, cioè più di quattro ore dopo essere uscita di casa – il lavoro può cominciare. Prima organizza lo spazio: sceglie un punto riparato, sistema i moduli, controlla il ghiaccio e prepara le dosi. Arriva sempre con un piano di lavoro definito sul numero di bambini da vaccinare, ma porta con sé qualche dose extra per eventuali nuovi arrivati o fratellini non segnalati. Una giornata tipo prevede circa 50 pazienti, per lo più bambini sotto i 5 anni. Ricevono vaccini fondamentali contro poliomielite, morbillo, tetano e polmonite – quest’ultima particolarmente pericolosa in un clima umido e piovoso come quello delle montagne del Monte Elgon, dove le infezioni respiratorie sono frequenti. Oltre ai vaccini, Agnes somministra regolarmente trattamenti vermifughi e integratori essenziali come la vitamina A, rafforzando così lo stato nutrizionale dei bambini. Il suo lavoro non si ferma alla pediatria. Agnes è spesso la prima e unica figura sanitaria che molti adulti incontrano da mesi: ascolta sintomi, dispensa consigli, indirizza ai livelli di cura superiori quando necessario. Offre informazioni sulla salute riproduttiva, parla di pianificazione familiare, di prevenzione delle infezioni e di igiene domestica. In assenza di medici e di strutture facilmente accessibili, la sua presenza diventa un punto di riferimento clinico, educativo ed emotivo per intere comunità.
L’impatto sulla salute e le statistiche nazionali
La storia di Agnes si intreccia con un dato di salute pubblica notevole: negli ultimi 25 anni l’Uganda ha registrato un calo drastico della mortalità infantile, passando da circa 145 decessi ogni 1.000 nati vivi nel 2000 a meno di 40 nel 2023. Una riduzione superiore ai due terzi, che i principali osservatori internazionali collegano in gran parte all’aumento della copertura vaccinale. Studi recenti sull’immunizzazione in Uganda mostrano comunque un quadro a luci e ombre: mentre i tassi di bambini “zero-dose” (cioè mai vaccinati) sono diminuiti in maniera significativa, persistono disuguaglianze tra aree urbane e rurali e tra regioni diverse del Paese. Le comunità più remote, come quelle raggiunte da Agnes, restano tra le più vulnerabili al rischio di sotto vaccinazione, rendendo il suo lavoro ancora più strategico per colmare i divari territoriali. In questo contesto, la figura di un’infermiera che accetta di salire ogni settimana su una scala sospesa nel vuoto per raggiungere bambini che altrimenti resterebbero esclusi dal sistema sanitario diventa la traduzione concreta, sul campo, di ciò che le statistiche riassumono in percentuali.
Riconoscimenti, visibilità globale e dibattito pubblico
L’abnegazione di Agnes non è passata inosservata. Il Ministero della Salute ugandese l’ha insignita del titolo di “Infermiera dell’Anno”, sottolineando il coraggio dimostrato nel raggiungere i villaggi montani attraverso scale improvvisate e terreni impervi. Nel 2023, il Rotary Club di Kampala l’ha premiata e sostenuta anche sul piano formativo, offrendole l’opportunità di proseguire gli studi verso una laurea in infermieristica. La notorietà è arrivata con la citazione di Bill Gates nelle sue GatesNotes. Il filantropo ha indicato Agnes come uno dei motivi per cui l’Uganda è riuscita a ridurre la mortalità infantile di oltre due terzi, inserendo la sua storia nel quadro più ampio degli investimenti della sua fondazione nei sistemi sanitari africani e nei programmi vaccinali globali come Gavi e Global Fund. Questa visibilità ha acceso un acceso dibattito in Uganda. Da un lato, molti cittadini e commentatori celebrano Agnes come un’eroina nazionale, simbolo di dedizione, professionalità e sacrificio. Dall’altro, alcune voci critiche sottolineano come la narrazione centrata sui “singoli eroi” rischi di occultare la responsabilità dello Stato nel garantire infrastrutture sicure, strade percorribili e stipendi adeguati agli operatori sanitari, mettendo in risalto le opportunità degli aiuti esterni e le insufficienti politiche interne.
Tagli ai finanziamenti e rischio burnout
Mentre cresce il numero di persone che la conoscono tramite i social media e gli articoli internazionali, sul terreno la realtà resta complessa. Negli ultimi anni, la clinica di Buluganya ha perso diversi operatori a causa del taglio di fondi esterni, in particolare legati a programmi come quelli dell’USAID. Molte delle posizioni eliminate erano dedicate al supporto delle neo mamme, alla gestione dell’HIV e della tubercolosi, alla distribuzione dei farmaci e allo screening dei soggetti ad alto rischio. Agnes e i colleghi rimasti cercano di colmare i vuoti, ma la pressione è enorme: più pazienti, meno personale, stesse distanze da coprire. Lei stessa esprime la preoccupazione che, senza un ripristino dei finanziamenti o un rafforzamento strutturale del servizio sanitario, il rischio di burnout diventi altissimo (pensando a me che ne sono colpito provo quasi un senso di vergogna n.d.a.). “La nostra comunità sta soffrendo molto”, afferma, sintetizzando il peso emotivo e professionale che grava su chi lavora in prima linea.
Formazione, sogni e un motto che diventa stile di vita
Nonostante le difficoltà, Agnes non ha smesso di guardare avanti. Grazie al sostegno di organizzazioni come il Rotary Club di Kampala e ad altre realtà locali, è tornata a studiare per completare una laurea in infermieristica. L’obiettivo è chiaro: acquisire nuove competenze cliniche e gestionali per migliorare ulteriormente la qualità dell’assistenza offerta alle sue comunità. Quando parla del proprio lavoro, lo fa con parole semplici ma intense: il motto degli infermieri in Uganda è “Amare e servire” e, per lei, “amare” non è solo un sentimento, ma un verbo che implica azione, presenza, responsabilità. Il suo sogno, racconta, è far stare bene le persone, vederle felici e sentirsi al loro servizio; è convinta che, dove c’è positività, nulla sia impossibile.
Dal volto di Agnes al futuro della sanità in Uganda
La vicenda di Agnes offre anche uno spunto di riflessione sulle strategie future per la sanità ugandese. Studi recenti suggeriscono, ad esempio, che soluzioni relativamente semplici come l’introduzione diffusa di biciclette e altri mezzi di trasporto di base potrebbero aumentare in modo significativo l’accesso delle comunità rurali ai livelli superiori di cura. Allo stesso modo, investimenti in infrastrutture sicure – come percorsi stabili o funi metalliche a sostegno delle scale – ridurrebbero i rischi fisici a cui operatori e pazienti sono quotidianamente esposti. In questo senso, il riconoscimento internazionale non è solo una celebrazione personale, ma anche un’occasione politica: la storia di Agnes può diventare una leva per chiedere più risorse, migliori condizioni di lavoro e una pianificazione sanitaria che parta dai bisogni reali delle comunità montane. Se le promesse di sostegno globale si tradurranno in azioni concrete, il coraggio di un’infermiera che scala le montagne potrebbe contribuire a ridisegnare il futuro della sanità ugandese, unendo eroismo locale e solidarietà internazionale.
Andrea Tirotto
p.s. siamo venuti a conoscenza di questa storia seguendo deboraricciuespandereorizzonti.org, l’associazione laica che a Kampala Uganda, partendo da due travi e qualche attrezzo ha messo in piedi una scuola per bambini poveri e orfani divenuta punto di riferimento grazie a piccoli contributi e di cui avevamo già parlato. La scuola offre il rimborso spese e l’alloggio per quanti volessero contribuire al benessere dei bambini portando la propria esperienza: gli infermieri con il loro bagaglio culturale saranno ancora più benvenuti
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