Medici e infermieri. Serve un cambio di passo
Lettera inviata e pubblicata su Quotidiano Sanità (Clicca)
Gentile Direttore,
vorrei rispondere alle riflessioni della studentessa in Medicina Eleonora Franzini Tibaldeo in risposta al mio precedente articolo sul suo Giornale. Non era mia intenzione lanciare una “richiesta” di collaborazione ai medici, sulla cui dignità comunque non nutrirei alcun riserbo, ma volevo innescare una riflessione rivolta a tutte le professioni sanitarie; e in questo contesto generale ad infermieri e medici in particolare, partendo dall’osservazione che le criticità lavorative quotidiane per tutti sono riportabili alle stesse macro-tipologie (inadeguatezza formativa, deprofessionalizzazione, burocratizzazione che allontana dal lavoro "sul campo", desiderio di esprimere una rappresentatività più forte nelle sedi decisionali).
Il rapporto odierno fra le nostre professioni manifesta delle criticità che affondano le loro radici in terreni diversi. Eleonora, come giustamente scrivi un primo problema riguarda la formazione. Ma non solo, ovviamente. Un altro grosso ostacolo è rappresentato da un modello di organizzazione del lavoro e da un retaggio culturale ormai cristallizzati che spesso non tengono conto del percorso evolutivo delle nostre professioni. Come ha scritto il dott. Francesco Saverio Proia “l’elemento più dirompente ed innovativo è dato dal fatto che le professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e la professione di ostetrica negli ultimi vent’anni, in virtù della legislazione e normativa del settore, sono state oggetto e soggetto di una profonda evoluzione ordinamentale e formativa che non ha pari in altri comparti di attività. Quest’innovazione ha fatto sì che la stragrande maggioranza del personale del comparto sanità sia costituito da laureati delle professioni sanitarie e da laureati specialistici medici formati nella medesima facoltà universitaria (quella di medicina e chirurgia) tutti professionisti con un proprio specifico autonomo campo intervento, periodicamente soggetto all’evoluzione scientifica, tecnologica e dei modelli organizzativi del lavoro propria del Servizio sanitario nazionale; anche questo non ha pari negli altri comparti, se non, con diversi fattori, in quello della conoscenza (scuola, università e ricerca)”.
Di questa evoluzione profondissima paiono tuttavia essersene accorti in pochi; l’organizzazione del lavoro è rimasta pressocchè immutata, e così pare anche la concezione, sia all’interno del sistema sanitario che all’esterno, della subordinazione della professione infermieristica rispetto a quella medica piuttosto che della complementarità delle due. A discapito della funzionalità del sistema rispetto al fine primo dello stesso: l’erogazione di servizi sanitari efficienti, efficaci e maggiormente vicini alle necessità del cittadino.
E’, a mio parere, inutile e improduttivo negare che sussista ancora in molte realtà, nonostante i decenni trascorsi, una visione medicocentrica e gerarchica del sistema sanitario, in cui la professione infermieristica è tutt’ora vista come “ausiliaria” a quella medica. Visione smentita dalla normativa, ma non infrequentemente riprodotta nella realtà.
C’è la necessità di un cambio di passo. Se hai avuto modo di leggere il pensiero del NurSind e i dibattiti da noi innescati su questi temi avrai certamente colto questa nostra propensione al rinnovamento, all’instaurazione di un nuovo modo di dialogare e di confrontarsi, senza trascurare di occuparci della questione della disoccupazione, dello stallo contrattuale e retributivo, del problema del turn-over e del burn-out (abbiamo manifestato il 3 novembre scorso per queste istanze a Montecitorio, con uno sciopero nazionale “in solitaria”.
La sfida oggi è di superare la visione mansionistica (questa definizione è talmente arroccata nel pensiero comune che talvolta viene utilizzata anche quando si discute di professioni, e quindi di competenze e non di mansioni, che afferiscono invece a ruoli esecutivi) e intraprendere un percorso diverso.
E’ illuminante il pensiero del prof. Cavicchi: “Il problema non è ridiscutere le relazioni storiche tra professioni che, per quello che mi riguarda, andrebbero ridiscusse, ma è di sostituirle con altre relazioni e altri modi cooperativi addirittura più efficaci sul piano dell’ inter professionalità. Il danno grave e profondo è quando la relazione tra professioni che bisognerebbe riformare, per mancanza di un progetto, viene semplicemente soppressa quindi mettendo in crisi la coesione cooperativa di un gruppo, di un collettivo, di una squadra. Se per perseguire un qualsiasi legittimo interesse si danneggia l’impresa che è la cura del malato allora si danneggia il servizio che per garantire l’impresa dovrebbe organizzarsi in modo cooperativo. Danneggiare il grado di cooperazione nel nostro mestiere non è uno scherzo ma è un danno all’efficacia della cura del malato. La coevoluzione è una idea complessa mentre il conflitto è senz’altro una semplificazione. La coevoluzione deve vincere il conservatorismo degli altri, la forza di inerzia degli interessi corporativi, le abitudini e gli stili professionali”.
Ecco, tutto questo per cercare di esprime quella che io ed il sindacato di cui faccio parte riteniamo sia la strada verso il futuro della sanità, non come manifestazione di una vaga purezza d’animo ma bensì come ferma e consapevole convinzione che non vi siano altre strade possibili.
Ma non siamo ingenui e sappiamo che il terreno è impervio; c’è un rivoluzione culturale da mettere in atto, partendo anche da quelle incrostazioni (anche talora nostre) che tu stessa hai avuto modo di osservare. Tuttavia contiamo di dover lavorare in questa direzione, con il prezioso supporto di laboriose intelligenze in tutte le sedi (accademiche, istituzionali, ministeriali, professionali), in un percorso che al contempo ridia centralità al valore del lavoro come chiave e leva fondamentale della nuova concezione di sanità, come ha sottolineato il nostro segretario nazionale Andrea Bottega a margine della manifestazione del 3 novembre scorso: “Oggi ri-pro-gettare la nostra condizione di lavoro significa molte cose ma soprattutto una in particolare: confrontarci e non sottrarci alla realtà delle risorse limitate cioè andare oltre la rivendicazione contrattuale alla quale pur abbiamo diritto e proporre il nostro lavoro come la prima risorsa per dare risposte alla fase recessiva che viviamo. Si tratta di disporsi a essere protagonisti con le nostre capacità per fare del nostro lavoro un’opportunità e una possibilità di sviluppo e non di negazione di quello che i lavoratori sono”.
Lavoriamo tutti insieme in questo progetto (cfr anche il tema della Cabina di regia, di cui il dott. Proia è uno dei promotori, e sicuramente riusciremo a spingerci verso una nuova e migliore sanità.
Chiara D’Angelo