Infermieri: una mappa mentale che... non conduce al tesoro
di Andrea Lucchi Lucchi
Il caso Mirna Mastronardi (approfondimenti su articolo del quotidiano sanità), non è l’ultimo nella sequela delle generalizzazioni che avvengono intorno alla figura infermieristica. Semmai forse è il più famoso. E non è l’ultimo non perché tutti i giorni le testate giornalistiche e Web-mezzi di informazione errino continuamente; anzi, forse queste vicende che dal back-stage sono zompate alle luci della ribalta hanno proprio avuto il merito di infondere qualche scrupolo in più prima di ogni pubblicazione inerente questioni sanitarie. Ma non basta ancora.
Il problema è che l’Infermiere non è solo coinvolto nella generalizzazione: l’Infermiere è la generalizzazione stessa. Allora quando un problema non va solo a tangere una categoria ma ne diventa quasi il paradigma con cui descriverla, il reiterarsi di esso non va analizzato solo pretendendo le scuse da chi erra (che certe volte va ammesso: in buona fede) ma va puntata la lente di ingrandimento sul perché c’è l’errore. Quindi chiediamocelo, perché? La risposta più frettolosa e che sembra dirimere ogni dubbio è ormai quella che viene data per giustificare spesso molti dei drammi infermieristici: è lo stato del SSN che non ci mette nelle condizioni. Parzialmente è vero-se i sistemi politico sanitari non paralizzassero i muscoli- sicuramente avremo più capacità di movimento. Ma non è tutta la verità, lo sappiamo e lo neghiamo per non percorrere sentieri analitici più complessi.
Poco fa ho ricevuto l’interessante lettera di una collega, fervente fautrice del processo di culturizzazione sociale infermieristica, dove mi illustra un bel progetto (di cui non cito il contenuto come da esplicita richiesta) da portare in gita tra il pubblico. Allora ho distillato ancora il fluido di pensieri chiedendomi: perché siamo percepiti tali dalle persone? Di chi è un Medico si ha un’idea precisa, ormai millenaria; di un fisioterapista idem. Di un Infermiere invece c’è solo una gamma di termini che vanno più o meno bene per descriverne l’essenza e tutti estrapolati dalle singole prestazioni che eroga e non sul campo di azione in cui si colloca la prestazione stessa: l’Infermiere è colui che fa le punture-che serve il pasto ai malati-che mette i pannoloni-che sbarella i pazienti etc. Manca l’univocità netta, decisa e acclarata di cui altre professioni godono nel loro intero dominio descrittivo. Come mai? Ciò che osserviamo ogni giorno si traduce in un’immagine nel nostro cervello e questa immagine è una mappa. Cioè una rappresentazione immersa in un mare di altrettante raffigurazioni che stanno nel cervello. E come fa il cervello per dargli un significato a cui attingere quando immediatamente va tirata fuori? La connota con punti fermi, descrizioni specifiche, attributi univoci, pertinenze esclusive: di una panchina difficilmente diremmo che serve per fare surf perché fin da piccoli abbiamo imparato che su una panchina si siede.
E’ come dividere un grande quadrato in tanti piccoli quadratini e delimitarne ciascuno con confini colorati assegnando ad ogni area una funzione: a quadratino richiamato la mente recepirà la differenza col simile tramite il colore e conoscerà di conseguenza la funzione. Ecco, l’Infermieristica è il quadratino e il colore l’attributo con cui viene immagazzinata; da qui la forma che ne consegue. Per anni, secoli, l’Infermiere è stato davvero colui che i nostri occhi hanno visto solo come ancillare, subordinato, privo di autonomia. Fin da piccoli siamo stati abituati a questa visione. Alla nostra coscienza generazionale (figuriamoci a quella precedente) è stata presentata una visione infermieristica incarnata nella vicina di casa, meglio se suora, che si reca a fare le punture per il condominio un po’ missionaria e un po’ furbetta: oggi si chiamerebbe almeno ADI.Lo stesso in ospedale dove gli Infermieri li abbiamo sempre visti lavare i pazienti. Idem nei film alla E.R dove la battuta classica è-Infermiera (sempre donna poi?) mi porti, mi faccia- che tradotto la nostra mente immagazzina come: porti a me, faccia a me, cioè io le impongo di fare, perentorio.
Ecco il serbatoio da cui si propaga la visione infetta di una professione malata di servilismo e pluri-sfaccettatta in una variabilità di mansioni infinita: l’infermiere è generalizzato per cultura. Iniziamo ad andare controcultura, a caricare una figura solo del suo significato per fare in modo di imprimerla e dargli una forma nella mente delle persone, uno spazio, un ordine essenziale che serva ad esse per differenziarlo. Chiamiamo il focus dell’infermiere per nome; attribuendo una geometria di descrizione ad un contenuto; classificandolo senza ridondanze isolandolo dalle turbolenze. Ora se si vuole davvero conquistare un’autonomia di professione (un posto proprio) bisogna andare ad aprire quel cofanetto che si trova nella mente delle persone e sostituirne il vecchio contenuto con qualcosa di nuovo. Ma dobbiamo mettercelo noi, dobbiamo essere noi a dire loro chi siamo e richiudere quella cassaforte con la certezza di aver lasciato una traccia che serva a fargli percorrere un circuito mentale differente da quello usato finora nel descriverci. Non si crea un contenitore ex-novo: c’è già. Almeno negli adulti.
E allora, come dice la collega, andiamo fuori. Fuori dalle strutture sanitarie dove le persone ci immaginano chini a spazzare la coltre di polvere sotto il letto del paziente. Con progetti dove la titolarità di ciò che presentiamo è nostra e sostituiamo la frase “Gli Infermieri? Puliscono, stirano, controllano il generatore della luce dell’obitorio….” con “Un gruppo di Infermieri hanno presentato questo progetto per la prevenzione dell’osteoporosi…”. Questo serve. Tracciare i confini della professione con colori diversi nelle persone, affinché quando essi dicono INFERMIERE la loro mente agisca come il trova-CD dei juke-box e si fermi stavolta su una traccia nuova. Aspettare che la bonifica dei terreni di certe mappe mentali venga dal sistema sanitario non può portare a questi risultati, gli attori del sistema siamo noi, non è il SSN l’intermediario tra noi e le persone ma siamo noi.
Le istituzioni sono un terreno di cultura buono per promuovere una cultura diversa, far assimilare alle persone un contenuto diverso della professione. Il cambiamento non avviene dall’oggi al domani ma è un processo lento. Ogni evoluzione richiede i suoi tempi lunghi e difficoltà. Oggi siamo esposti alle intemperie più dure. Se si vuole una rivoluzione professionale non la si può trascendere dal riparametrare le mappe cognitive delle persone su calibrature diverse; a noi il compito di promuoverle. Come? Con molti progetti: sensibilizzazione nelle scuole, nelle farmacie, nelle associazioni di volontariato, richiesta di una divisa unica su scala Nazionale, possibilità di adottare la prescrizione infermieristica come gli standard esteri garantiscono da anni, elaborazione di progetti da proporre in ambiti di prevenzione.
Questo concorrerebbe a creare nelle coscienze delle persone la stabilità di confine che serve a demarcare una professione, a differenziarla da un’altra. Ed il beneficio è anche per il cittadino, l’utente che finalmente in un atto di denuncia si troverebbe a chiamare col vero nome il destinatario della polemica a cui adduce e non a denominare Infermiere tutto ciò che passa la scopa per terra, che sta davanti al PC, al punto stop a dare informazioni, a servire i pasti o a guidare un’ambulanza.
Ma attenzione: per arrivare al tesoro ci vuole molta, ma veramente molta caparbietà, pervicacia e amore per la professione.