Infermieri neoassunti: formazione o salto nel vuoto? L'importanza del tutor clinico
L’ingresso in nuovo reparto è sempre un momento delicato nella vita di ogni professionista. Il cambiamento può essere agognato per i motivi più disparati, capitare per caso o anche forzatamente e questo può determinare forti aspettative, entusiasmo, vitalità o addirittura ansie e paure per quello che ci aspetta.
Come saranno i colleghi, come mi accoglieranno, mi metteranno a mio agio, sarò all’altezza? E tutti gli altri? Oss? Medici? Coordinatore? Mi entusiasmerà il nuovo lavoro o sarà peggio del precedente, routinario, noioso o travolgente per volumi e disorganizzazione. Insomma domande più che lecite che possono trovare risposta solo al momento della presa di servizio.
Nella peggiore delle ipotesi ti schiaffano a fare mattini per qualche settimana fino a prendere un po’ di confidenza con logistica, materiali e attività e piano piano sei promosso al turno del pomeriggio fino alla laurea del turno di notte. Master e laurea specialistica tutto insieme al momento dell’ingresso nel girone dantesco delle reperibilità, quando è chiaro che tutti si fidano di te (o semplicemente non vedevano l’ora di farne qualcuna in meno) e ritengono di poterti affidare la gestione autonoma delle procedure più complesse.
È quindi sempre una buona cosa quando le aziende si dotano di programmi di inserimento del nuovo assunto “affinché gli sia garantito un periodo di tempo necessario ad assimilare le corrette informazioni tecnico-scientifiche e venga effettuato un periodo di praticantato tale da renderlo competente e autonomo, in modo da favorire l’erogazione di un’assistenza adeguata e sicura in tempi accettabili, ridurre i tempi per ambientarsi alla nuova situazione ed iniziare a lavorare in modo autonomo, ridurre i costi di supervisione e dei livelli di errore e allo stesso tempo un aumento dell’efficacia organizzativa”.
Così si legge nella procedura appena approvata da Aou Sassari, la prima della sua storia e fondazione. Un documento ben dettagliato, necessario che sicuramente riprende schemi e modelli già ampiamente collaudati ma che mi colpisce soprattutto per un motivo: “l’individuazione del possesso delle doti necessarie per divenire tutor è affidata al Coordinatore”.
E attraverso quali percorsi formativi? Quando il coordinatore avrebbe conseguito tali capacità o come, quando e chi le avrebbe mai attestate? E non è una domanda di poco conto perché “al tutor si richiede una professionalità specifica elevata con conoscenze teoriche approfondite e buone capacità operative e gli sarà affidata la responsabilità circa l’acquisizione di conoscenze ed abilità necessarie al raggiungimento dell’autonomia professionale del personale da inserire; inoltre il Tutor collabora alla formulazione del Piano Formativo, è responsabile della formazione sul campo e delle valutazioni in itinere” e deve possedere anche “buona volontà, buona capacità comunicativa, precedenti esperienze in materia di azioni di supporto e /o di formazione “on the job””.
A seguire, un elenco di compiti e funzioni che a leggerli tutti si finisce per chiedersi come sia possibile occuparsene, dovendo al contempo gestire i piani assistenziali del proprio turno di lavoro, tanto più che non esiste la figura professionale del tutor clinico e tantomeno una formazione specifica e riconosciuta per diventarlo.
Insomma, come per gli studenti, anche questa attività individua una figura specifica che dovrebbe essere altamente formata che di fatto non esiste, come non esiste nessuna retribuzione aggiuntiva (almeno per gli studenti ogni 15 ore di tirocinio si guadagna un credito ecm, che fortuna). Un problema che sarebbe il caso di cominciare a trattare al pari delle ore di docenza alle università che in tanti svolgono gratuitamente con una laurea specialistica. Una questione che potrebbe aprire una prospettiva lavorativa specialistica da non riservare ai soli infermieri da trattenere oltre i limiti pensionistici come già proposto, considerata l’importanza della funzione e degli obbiettivi che la procedura di inserimento del neoassunto si prefigge di soddisfare.
Nel frattempo si fa quel che si può, costretti ad un compito ingrato, rincorrendo la routine, inseguiti dalle incombenze, nella speranza che il neo assunto sia sveglio, intraprendente e con l’augurio di non incappare nel più classico dei “si è sempre fatto così”, buono per ogni stagione, buono per far presto e non rischiare di dire qualche fesseria. Perché vanno anche bene compiti aggiuntivi e specialistici come questo in aggiunta all’ordinario ma per lo meno che si sia formati per svolgerli e ricompensati a modo.
Andrea Tirotto