Corte di Cassazione: confermata la legittimità del licenziamento per intemperanza verbale
Roma, – La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha pronunciato un’importante ordinanza rigettando il ricorso presentato da un lavoratore licenziato per giusta causa dopo aver rivolto espressioni offensive a un collega. La sentenza, emessa il 15 gennaio 2025, conferma la decisione della Corte d’Appello di Firenze, che aveva ritenuto il licenziamento legittimo ma sproporzionato, condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria di circa 60.000 euro.
I fatti
Il caso riguarda un dipendente assunto nel 1999 e licenziato il 26 maggio 2021 per giusta causa dopo aver rivolto al collega frasi come “finto tonto”, “incompetente” e “non hai capito qual è il problema”, in presenza di un terzo dipendente. Il lavoratore ha contestato il licenziamento, adducendo l’insussistenza del fatto e la violazione delle procedure disciplinari previste dall’art. 7 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori). Il Tribunale di Firenze aveva inizialmente riconosciuto un licenziamento per giustificato motivo soggettivo, limitando la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
La decisione della Corte d’Appello
La Corte d’Appello di Firenze, in parziale accoglimento del ricorso del dipendente, aveva ravvisato una sproporzione tra la condotta del lavoratore e la sanzione applicata. Pur riconoscendo la gravità delle espressioni utilizzate, i giudici avevano sottolineato che si trattava di un episodio isolato, senza conseguenze sull’andamento del lavoro o sull’azienda. Di conseguenza, la Corte aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del 26 luglio 2021 e condannato la società al pagamento di un’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18, comma 5, della Legge n. 300/1970.
Il ricorso in Cassazione
Il lavoratore ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente applicato la tutela risarcitoria prevista dal comma 5 dell’art. 18, anziché quella reintegrativa del comma 4. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo, precisando che la tutela reintegrativa è prevista solo in caso di insussistenza del fatto contestato o di sua irrilevanza disciplinare. Nel caso in esame, invece, il fatto era stato accertato nella sua materialità, sebbene ritenuto non così grave da giustificare il licenziamento.
Le considerazioni della Cassazione
La Corte ha ribadito che il licenziamento rappresenta sempre l’extrema ratio e che, in questo caso, la condotta del dipendente, pur grave, avrebbe potuto essere sanzionata con una sospensione anziché con l’espulsione. Tuttavia, ha confermato che il licenziamento era legittimo, rigettando il ricorso del lavoratore. Inoltre, la Cassazione ha respinto anche il secondo motivo di ricorso, relativo a un presunto errore nella contestazione degli addebiti, confermando che l’omissione non aveva pregiudicato il diritto di difesa del lavoratore.
Le conseguenze
La Corte ha quindi rigettato il ricorso, condannando il lavoratore al rimborso delle spese legali della controparte, quantificate in 4.000 euro, oltre a ulteriori 200 euro per esborsi e al contributo unificato previsto dalla legge.
Un precedente significativo
La decisione della Cassazione conferma l’importanza del principio di proporzionalità nelle sanzioni disciplinari, ribadendo che il licenziamento deve essere utilizzato solo in casi di estrema gravità. Tuttavia, nel caso specifico, ha ritenuto che la condotta del lavoratore, pur non giustificando il licenziamento, fosse comunque tale da non consentire la reintegrazione, limitandosi a concedere un’indennità risarcitoria.
Il caso rappresenta un monito per i lavoratori a mantenere un comportamento rispettoso sul luogo di lavoro, anche in situazioni di tensione, e per le aziende a valutare con attenzione la proporzionalità delle sanzioni disciplinari.
Corte_di_Cassazione,_sezione_lavoro,_ordinanza_n_5_250309_215742