Iscriviti alla newsletter

Assenza di Dpi ed operatori infetti. Ecco perché non si trovano le mascherine

Maria Luisa Astadi
Maria Luisa Asta
Pubblicato il: 31/03/2020 vai ai commenti

AttualitàCoronavirus

Dal 21 febbraio, quando il “caso 1” ci fa precipitare in un incubo chiamato Coronavirus – Covd-19, quello dell’approvvigionamento ai dpi ed in particolare alle mascherine diventa una corsa contro il tempo, che ancora ad oggi non trova soluzione e la quale carenza ha portato a più di 9000 operatori infettati.

Ma perché le mascherine sono diventate introvabili?

 

Un’importante inchiesta di Milena Gabanelli, giornalista, pubblicata su il Corriere, spiega in maniera chiara cosa è accaduto e cosa ancora impedisce un approvvigionamento congruo alle richieste.

 

Tutto parte da un documento del Ministero della Salute, il Piano Pandemico Nazionale, il cui fine è quello di “rafforzare la preparazione alla pandemia a livello nazionale e locale”.

Il piano divide il rischio pandemia in sei fasi, e già nella prima, quando il rischio nell’uomo è considerato basso, si prevede previo censimento dell’esistente, di costituire una riserva nazionale di Dpi ed altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale, e di iniziare la negoziazione per un approvvigionamento sicuro.

Evidentemente, la prima fase del piano non viene rispettata e nemmeno dopo il 31 gennaio, quando viene dichiarato lo stato di Emergenza.

 

Ed intanto ad epidemia conclamata solo il circuito sanitario della Lombardia ha bisogno di 1,1 milioni di mascherine al giorno, l’Emilia Romagna 500.000, il Veneto 600.000. Ogni mese in Italia ne servono 90 milioni.

 

Cosa succede con gli approvvigionamenti?

Succede che i fornitori con gara finiscono le scorte e la Cina da Gennaio non consegna più. Le Regioni quindi cominciano a rivolgersi ad altri mercati: la Comitec, che fornisce Emilia Romagna e Marche, si rivolge alla Turchia e ordina milioni di pezzi certificati alla Edge Mask: le Ffp2 che prima vendeva a 65 centesimi, salgono a 2,50 euro, le Ffp3 passano da 1 euro a 4,35.

Consegnato il primo lotto da 200.000 e sborsato 670.000 euro, Erdogan le blocca il 5 marzo alla dogana di Ankara. A nulla serve l’implorazione del premier Conte. L’azienda ci ha rimesso i soldi, fine.

La Lombardia ha 500.000 pezzi bloccati a Mumbai (India), e 100.000 l’Emilia Romagna. A provvedere per tutto il territorio è incaricata la Protezione civile nazionale, attraverso la Consip con call internazionale: al 24 marzo i pezzi distribuiti alle Regioni non raggiungono il 30% del fabbisogno reale.

In questa confusione cominciano a fioccare broker ed aziende che si improvvisano come intermediarie ma le cose non vanno meglio:

 

BCM MODENA -commercio metalli: promette 5 milioni di mascherine dalla Cina, mai arrivate.

 

LINEA AGRI – vendita on line: 100mila mascherine e 539 tute protettive, il carico viene rubato.

 

GLOBAL SERVICE -export piastrelle: propone acquisti dalla Cina con bonifico anticipato, le Asl rifiutano.

 

I broker comprano grosse partite con la lettera di credito delle centrali acquisti, ma succede che solo una parte la mandano agli ospedali, il resto va sul mercato online o ad altri canali.

 

Gli attuali sequestri alle dogane

 

 

 

 

Lievitano i prezzi

 

 

Perché la produzione in Italia non decolla?

L’art. 15 del decreto 18 del 17 marzo autorizza la produzione di guanti e mascherine per uso medicale e per i lavoratori, in deroga alle norme Ce. Molte aziende, grandi e piccole, si sono attivate per la riconversione della loro attività, ma prima di partire con gli investimenti vogliono avere certezze sul fatto che nessuno contesti poi la sicurezza del prodotto.

È richiesta l’autocertificazione del produttore, ma secondo quale criterio? In Germania l’autorità sanitaria ha disposto un protocollo semplificato da seguire. In Italia quaranta produttori si sono rivolti a Italcert e società che testano i materiali per avere indicazioni, le quali hanno definito una procedura semplificata e inviata all’Inail e all’Istituto superiore di Sanità (Iss).

Tempo previsto per la risposta: tre giorni. Inail l’ha subito bocciata: occorre seguire la procedura standard (che richiese qualche mese); l’Iss dopo 10 giorni ancora non si pronuncia. Nel mentre, le aziende che sarebbero pronte alla riconversione, sono ferme. In compenso nel decreto, accanto alla frase che autorizza la produzione in deroga alle norme vigenti, è stata inserita la parola «e importazione», vantaggioso per i produttori stranieri di materiale scadente e che le dogane non possono più fermare perché basta l’autocertificazione del produttore.

 

Da il Corriere della Sera- Inchiesta di Milena Gabanelli